Patrizia Gucci: la volta che mio nonno vendette le nostre valigie a Kennedy

31 Mar 2015 14:42 - di Alberto Pezzini

Con Gucci. La vera storia di una dinastia di successo (Mondadori Electa, pp. 128, euro 16,90) Patrizia Gucci, figlia di Paolo, ha voluto parlare delle sue radici e di una storia fatta non solo di pelle morbidissima, ma soprattutto di passione e senso della famiglia. Oggi Gucci è una multinazionale che con la famiglia omonima non c’entra più nulla. Il marchio venne venduto agli americani che, con Tom Ford, arrivarono ad impadronirsi di un know how tipicamente italiano, anzi fiorentino. Eppure la storia della famiglia Gucci è, ancora, tutta da scoprire e da apprezzare.

Quando inizia la vostra storia famigliare?

Con mio bisnonno Guccio che ai primi del Novecento andò a Londra a fare l’ascensorista all’Hotel Savoy. Era uno dei primi alberghi a disporre di un ascensore allora. In quel clima Guccio osservò il bel mondo di allora che viaggiava munito di capacissimi e preziosissimi valigioni e bauli. Forse nacque in quelle visioni l’amore per le borse, chissà.

Era un uomo rivoluzionario per l’epoca…

Può dirlo. Il suo viaggio gli insegnò le lingue e l’amore per l’Inghilterra che trasmise poi ai nostri prodotti.

Un esempio?

Il nostro nastro rosso e verde che altro non era se non il sottopancia dei cavalli.

Poi come arrivò alla pelle ?

Ritornò in Toscana e si mise al lavoro. Aveva un occhio scientifico per la pelle buona e soprattutto per un prodotto lavorato bene. All’epoca non esisteva la pubblicità ma soltanto il passaparola tra i clienti per reclamizzare un lavoro eseguito a regola d’arte.

La cura del particolare era un segno distintivo come la G del Vostro marchio ?

Assolutamente sì. Le faccio un esempio pratico. Mio padre Paolo aveva a disposizione in fabbrica una cella elettrochimica mediante la quale era possibile bagnare nei famosi tre micron d’oro gli accessori per aprire e chiudere le borse: questo bagno impediva agli stessi di invecchiare anzitempo e di perdere lucentezza. Oggi, senza questo bagno, gli accessori diventano bianchi. Sono perlopiù fatti di zama, una lega di zinco, un materiale che costa poco.

Una delle borse più celebri dove la cura del particolare era sacrosanta ?

Sicuramente la n. 0633, quella per intenderci con i manici di bambù. Era stato mio zio a volerla perché appassionato collezionista di bastoni da passeggio. I manici erano piegati a fuoco e recavano all’interno un numerino inciso il quale indicava l’operaio che se ne era occupato materialmente. In caso di eventuali difetti, ciò consentiva di riconsegnare la borsa fallata allo stesso uomo che l’aveva “lavorata”.

Mi sta parlando di fantascienza! Sarà per questo che negli anni Sessanta questo metodo vi portò anche a vendere un set di valigie al Presidente John Fitzgerald Kennedy?

Fu mio nonno Aldo un altro uomo molto intraprendente per l’epoca a recarsi negli States. Un giorno spedì dall’America una lettera indirizzata a tutti i dipendenti. Conteneva in copia l’assegno firmato da John Kennedy per l’acquisto di un set delle nostre valigie.

Mi spiega perché ha voluto scrivere questo libro?

Mi ero stufata di leggere ed ascoltare tante storie false ed ingannevoli sulla nostra famiglia.

Si sarà rivelata anche dolorosa la scrittura dunque…

Un poco sì, soprattutto quando ho ricordato mio papà Paolo, che morì in Inghilterra all’eta di 63 anni.

Il tratto distintivo dei Gucci?

L’understatement, tipico degli inglesi. Mio nonna Olwen era inglese. Forse, non a caso.

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