Strage di Acca Larenzia: il ricordo di un (ex) giovane che c’era

8 Gen 2015 12:50 - di Redazione

«7 gennaio 1978. Avevo 21 anni. Vi racconto una storia, il mio 7 gennaio 1978. Ero a San Felice Circeo a casa di Barbara, la mia ragazza di ieri e di oggi. Insieme a suo fratello Fabrizio ci eravamo immersi alla Secchitella, non c’erano ancora Gav, computer, solo pesi e due bibombola della fine degli anni ’60 del padre. Reperivamo invertebrati per un’azienda di acquari di Latina. Un freddo che non vi dico. Pomeriggio verso le 18, giornale radio, si chiamava così, da una gracchiante radiolina: “Uccisi due giovani missini davanti la sezione di via Acca Larentia. Giovani di tutta Roma stanno convergendo sul posto. Si temono incidenti.” In un attimo butto all’aria le coperte con cui mi stavo riprendendo dal freddo dell’immersione. Un bacio a Barbara e via, sulla mia Cinquecento, verso Roma. Arrivo da sud, riesco a parcheggiare a largo dei Colli Albani. Vedo lampeggianti ovunque, poi con il cuore in gola, attraverso via Cave. Blindati dovunque, aria annebbiata da lacrimogeni, quasi non respiro. Finalmente arrivo e qualcuno mi dice, hanno sparato ancora, uno dei nostri all’ospedale, sono stati i carabinieri. Era Stefano Recchioni, morirà poco dopo. L’avevo visto qualche volta a via degli Scipioni. Rabbia, groppi alla gola, rimasi a Roma per tre giorni. Chi c’era sa perché e cosa successe per i tre giorni consecutivi. Tutte le mie certezze di quegli anni, quelle che mi facevano pensare ed agire in modo trasversale, che mi facevano pensare che anche “gli altri” erano giovani come me, quindi ribelli ed idealisti, vacillarono di fronte a quel sangue. Potevo essere io, era toccato invece a loro. In quegli anni avevo teso la mano più volte, dicevo/vamo unità generazionale contro il sistema, no alla logica degli opposti estremismi. Tutto ciò in quella notte andò in frantumi. Dopo i tre giorni di vera lotta collettiva della nostra area al sistema, forse la prima vera ed unica volta collettiva, torno a Latina. Preparo per due giorni manifesti verniciati a mano, altri improvvisati fotocopiati con guerrigliero disegnato con una celtica al braccio. E per due notti riempio la città. Eravamo in due, io e Dino Mangani. Arriva il 12 gennaio e parto con una nave da Civitavecchia, per il servizio militare destinazione Sassari. Sempre tutto d’un fiato. I morti non finirono lì, purtroppo. Non era una guerra. E’ stata invece una sorta di prosecuzione o di tentativo di ripresa di storia di vigliaccate assassine come quelle del 43/46. E il sistema ne ha approfittato abbondantemente. Pensare oggi che un mio figlio possa a soli 18/20 morire così mi fa venire i brividi, che sono comunque diversi dai brividi giovanili vissuti allora. Mai più. Da quella serataccia non ho mai mancato un anno al mio saluto per loro, compreso un anno dopo quando toccò ad Alberto Giaquinto, figlio di farmacista come me, con i nostri Padri che si conoscevano, tra l’altro. Ecco perché in questi giorni ho scritto: “E’ anche un fatto intimo, io sarò lì ogni anno finché camperò, me ne frego delle elucubrazioni”. Franco, Francesco, Stefano e tutti gli altri vivono in me e con me….///….».
Ferdinando Parisella, quasi 59 anni

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