Rivolta in Usa, parla il poliziotto: «Non sono un killer, mi sono difeso»

26 Nov 2014 10:14 - di Laura Ferrari

«Mi dispiace molto, per la perdita di una vita, ma ho fatto semplicemente il mio lavoro». Così l’agente Darren Wilson nella prima intervista alla ABC News, di cui sono state rese note alcune anticipazioni, dopo la decisione del Gran giurì di non incriminarlo per la morte del 18enne nero, Michael Brown. La versione della legittima difesa emerge anche dalla testimonianza resa dal poliziotto al Gran giurì. «Brown sembrava un demonio. Stava per afferrare la mia pistola, gli ho sparato, l’ho ucciso», si legge nella trascrizione resa pubblica martedì sera dopo l’annuncio della decisione dei 12 giurati di non incriminarlo.

La versione dell’agente Wilson al Gran Giurì

In America, gli atti del Gran giurì sono segreti e quando non c’è una incriminazione, come nel caso dell’agente Wilson, rimangono secretati. Ma, con un procedimento insolito dopo le deliberazioni, evidentemente condizionato dai disordini scoppiati in queste ore a Ferguson e in altre città degli Stati Uniti, le trascrizioni delle testimonianze che i giurati hanno ascoltato in due mesi sono state pubblicate. Sono stati resi disponibili 24 volumi di materiale che hanno coperto 23 incontri tenuti dal Gran giurì, dal 20 agosto al 21 novembre. «Non ho mai visto così tanta furia semplicemente per aver chiesto a qualcuno di camminare sul marciapiede», ha raccontato Wilson. Quel giorno del 9 agosto, l’agente era intervenuto dopo la segnalazione di un furto di sigari. Si è avvicinato al giovane afroamericano a bordo della sua auto, dopo aver verificato che si trattava del giovane descritto dal negoziante, e gli ha chiesto di avvicinarsi. «Mentre cercavo di aprire la portiera, lui si è girato e mi ha guardato, poi me l’ha sbattuta in faccia. Gli ho chiesto di indietreggiare, ma lui mi fissava, quasi in un gesto di intimidazione o di sopraffazione». A quel punto, secondo il suo racconto, Brown lo aggredisce dentro l’auto con un pugno. Poi un altro. Il poliziotto cerca di reagire, ma «mi sentivo come un bambino di 5 anni che afferra Hulk».

«L’aggressore sembrava un demonio, è entrato in auto»

Il suo racconto è corroborato dalle foto rese pubbliche martedì dopo gli incidenti e scattate dopo la sparatoria. Pochi lividi in realtà sul collo e sul viso, ma che confermerebbero che Mike Brown lo ha aggredito nella sua auto. Il poliziotto racconta che il giovane ha poi cercato di afferrargli la pistola: «La sua mano era sopra l’arma, vedevo già la pallottola colpirmi al fianco». Wilson riesce ad avere la meglio nella colluttazione e spara un colpo. «Gli altri erano andati a vuoto. Lui mi fissava, sembrava un demonio. Poi un colpo ha spaccato il vetro dell’auto». Mike si allontana, il poliziotto lo insegue. Entrambi si fermano, il teenager si gira verso l’agente. «Gli ho chiesto di mettersi a terra, ma lui ha alzato una mano nel gesto del pugno e ha messo l’altra nella cintura, iniziando a correre verso di me. A quel punto ho sparato. Ma lui non si fermava. Ho sparato altri colpi e lui continuava a fissarmi come se non fossi neanche lì».

Per fermare Brown ha sparato 12 colpi

Wilson, che con il suo gesto ha indirettamente acceso la miccia della rivolta americana, non sa quanti proiettili lo abbiano ferito (le autopsie hanno stabilito che ne sono stati sparati 12). «So che era stato colpito, ma non so dove, continuava ad avanzare mentre io indietreggiavo. Stava per attaccarmi. Allora ho guardato a terra e ho sparato di nuovo. Tutto quello che ho visto era la sua testa ed è a quella a cui ho mirato. Non so quanti colpi ho sparato. So almeno una volta perché ho visto che l’ultimo proiettile lo ha colpito. E’ diventato bianco, sapevo che si era fermato, che la minaccia era finita». Così Mike Brown è crollato con il viso verso l’asfalto.

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