Giustizia, le accuse (e l’autocritica) di un magistrato di trincea

6 Nov 2014 18:34 - di Antonio Marras
“Chiamatela pure giustizia (se vi pare)”: il titolo rende bene l’idea di come un autorevole magistrato, in un libro-confessione, consideri accidentato il terreno sul quale s’è mosso per una vita intera, prima di andare in pensione carico di soddisfazioni ma anche di amarezze. C’è un giudice a Napoli, non solo a Berlino, che guarda in faccia la realtà disastrata del sistema giudiziario: si chiama Giovandomenico Lepore e da Capo della Procura più bollente d’Italia, dal 2004 al 2011, ha contribuito a sgominare il clan dei Casalesi. Dalla sua esperienza ha ricavato giudizi non banali e riflessioni non faziose che ha raccolto nel volume scritto con il giornalista Nico Pirozzi.

La fotografia di un Paese in ostaggio dei tribunali

Il libro elenca minuziosamente i numeri dello sfascio-giustizia, molti dei quali attinti all’apertura dell’ultimo anno giudiziario, dal Primo presidente della Cassazione. Statistiche alla mano, Giorgio Santacroce (qui la relazione) riferiva dell’esistenza di quasi otto milioni e mezzo di cause pendenti: 3,2 milioni di liti penali e circa cinque di procedimenti civili. “Tenuto conto che in ogni causa sono coinvolti almeno due persone, è come se tutti gli abitanti della Lombardia e delle tre Venezie, neonati e ultra centenari compresi, vale a dire circa 17 milioni di persone, avessero dei processi in corso in un tribunale italiano…”, è scritto nella parte iniziale del libro.

Le speranze di una riforma

«Anche Renzi, come molti suoi predecessori a palazzo Chigi dà il via alla sua rivoluzione. Come, quando e quanto la riforma messa a punto dal Rottamatore inciderà sui destini della giustizia italiana è prematuro dirlo. In attesa di poterlo verificare», spiega Lepore, che con la politica ha un rapporto distaccato e perfino speranzoso, per certi versi: «Se come promettono Renzi e il Guardasigilli Orlando, l’obiettivo è quello di disincentivare il ricorso al giudice, di creare una corsia preferenziale a famiglie e imprese, promuovendo la soluzione extra giudiziaria delle controversie, la negoziazione tra le parti assistita dai legali e gli arbitrati, possiamo allora dire di essere sulla buona strada».

 L’appello all’indipendenza dei giudici

 Ma Lepore, magistrato dal 1961, da anni impegnato sull’anticamorra e sul terreno della legalità, non si tira indietro quando c’è da fare autocritica sulla sua categoria. «Il Consiglio superiore della magistratura, nella sua composizione correntizia è l’esatto riflesso del potere politico che, attraverso questo escamotage, riesce a condizionare pesantemente decisioni importanti, come quelle che riguardano la nomina di un Procuratore della Repubblica. Un intervento, come annunziato dal presidente del Consiglio, Renzi, per garantire che la carriera dei giudici avvenga più per il riconoscimento delle capacità che per appartenenza alle correnti, sarebbe più che auspicabile», spiega. Poi, sulle accue di corporativismo, Lepore le giudica condivisili solo in parte: «Giudici e pm, come altri impiegati dello Stato, sono ben remunerati, non quanto però molti manager, direttori o presidenti di enti pubblici, che hanno contratti e stipendi a cinque e sei zeri. Certamente tali da far impallidire anche un magistrato con cinquant’anni di servizio. Ha invece ragione chi critica il comportamento di alcune toghe che con i loro comportamenti delegittimano la credibilità del sistema giudiziario e della stessa magistratura. Lo spettacolo offerto da certi uffici, e le iniziative assunte da alcuni magistrati con ruoli di alta responsabilità non sono certa mente tra i più edificanti per il cittadino».

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