Massimo Fini: Zemmour ha successo perché “ammazza” il politically correct

31 Ott 2014 13:03 - di Priscilla Del Ninno

La Francia ripensa se stessa: il successo in Europa di Marine Le Pen; l’impopolarità crescente di Hollande; la piazza in rivolta contro i matrimoni gay, sono solo alcuni dei sintomi più evidenti di una crisi strutturale a rischio di endemizzazione. A dimostrazione del progressivo aumento di un rischio implosione del modello d’oltralpe, paventato da molti intellettali e polemisti, è arrivato in libreria Il suicidio francese, un volume firmato dall’arrabbiato anti-élite per eccellenza, il cinquantaseienne editorialista del Figaro, Eric Zemmour, con oltre mezzo milione di copie vendute diventato subito un caso – e un successo – editoriale. Un saggio di 500 pagine sui «quarant’anni che hanno distrutto la Francia: una sorte di manifesto programmatico reazionario e populista in cui l’autore si scaglia contro gay, immigrati, Unione europea: insomma contro tutti quelli che rappresentano i baluardi del politicamente corretto». Ne abbiamo parlato con lo scrittore e giornalista Massimo Fini, un’anti-modernista per eccellenza.

Allora Fini, che portata sociologica può avere la critica culturale all’evoluzione sociale?

«La rivendicazione della propria identità, che mi pare il nodo centrale dell’operazione editoriale proposta da Zemmour, va benissimo se al contempo però viene rispettata anche quella altrui. Noi in Occidente dimostriamo ogni giorno di più di patire le trasformazioni portate dai flussi migratori, ma non teniamo conto che anche noi, con le nostre economie, con la nostra espansione imprenditoriale, abbiamo grandi responsabilità nei confronti del cambiamento delle identità degli altri. Un problema, questo, che si è posto soprattutto nel periodo di massimo appeal della Lega, che di fatto basa molto il suo progetto sulla rivendicazione dell’identità: una cosa su cui posso essere d’accordo, a patto che però si finisca di andare ad aprire “puzzolenti” fabbriche in Tunisia, Marocco e altrove».

Dovremmo smontare un sistema economico globalizzato per rispettare il criterio delle diversità identitarie: è una provocazione?

«Diciamo che in linea teorica – perché non accadrà mai – noi dovremmo ritirarci da quei mondi per arrogarci poi il diritto di mandare via, o addirittura di non far arrivare, gli immigrati da noi. E non è una provocazione. Se noi accettiamo – e su questo punto il libro di Zemmour non è chiaro – che il capitale possa andare dove può trovare la migliore remunerazione, lo stesso diritto lo devono avere gli uomini…».

Invece, in merito all’esortazione dell’autore a dare voce al popolo, e non all’élite che decide, incitando a un ribaltamento culturale prima ancora che politico, cosa pensa?

«Mi pare che Tocqueville prima di Zemmour lo abbia teorizzato: peccato non si sia mai trovato ancora un sistema dove il popolo arrivi a decidere sul serio. Neppure nelle rivoluzioni, come noto scatenate da élite, a partire da quella francese e da quella sovietica. Le uniche rivoluzioni popolari in Europa che mi vengono in mente sono state quelle russe di Stenka Razin e Pugacev, che sono state soffocate nel sangue. E ormai l’Occidente è troppo “vecchio” per questo, e decisamente in debito di vitalità; e in una democrazia rappresentativa – che per quanto mi riguarda è una finzione – non c’è modo di ribaltare le cose».

Un’ultima considerazione. In questo pamphlet reazionario e populista l’autore si scaglia contro i capisaldi del politically correct: condivide questo approccio?

«Zemmour mette insieme cose molto diverse che vanno dall’Ue ai gay, passando per l’immigrazione: il che mi crea qualche perplessità. Poi posso dire che anch’io sono un antimodernista, ma non per questo vorrei tornare all’epoca in cui si bruciavano le streghe».

È un “reazionario libertario”?

«Diciamo così…».

 

 

 

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