Riaffiora la disputa sull’art.18 mentre si contano le ferite della riforma Fornero

12 Ago 2014 12:30 - di Alberto Fraglia

L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori torna ad essere lo spartiacque ideologico tra un vecchio e un nuovo modo di intendere i rapporti di lavoro. A leggere le interviste che qua e là spuntano come funghi nelle giornate ferragostane rese incandescenti dal tintinnare di previsioni al ribasso per la nostra economia   – ormai non passa giorno che non precipitino sulla testa del governo stime poco rassicuranti sullo stato dei nostri conti e sulla stagnazione nella quale si è incagliato il treno della ripresa – si ricava la netta sensazione che questa storia dell’art. 18 rischia di  compromettere il cammino del governo. Dopo il richiamo di Draghi  e l’allarme  Moody’s, che certifica un taglio del Prodotto interno lordo a -0,1% e innalzamento del rapporto deficit/Pil, le posizioni sul come intervenire per liberare il mondo del lavoro da norme stringenti, e da vincoli che ne ostacolano il corso, tornano nuovamente a radicalizzarsi. C’è chi, come Alfano e Forza Italia punta all’abrogazione sic et simpliciter dell’art.18 e chi, come parte del Pd e la Cgil, è di parere nettamente contrario. Messa in questi termini, la questione non appare superabile. Anzi, è netta la sensazione che non si ricavi un ragno dal buco. Eppure basterebbe ragionare, come suggerisce con acume Oscar Giannino dalle colonne del “Messaggero” , su  dati oggettivi, senza paratie ideologiche,  cercando di leggere la realtà effettiva tramite l’attento esame dei numeri. I numeri, appunto,  dicono che nei nuovi rapporti di lavoro attivati tra il 2011 e il 2013, sono diminuiti i contratti a tempo indeterminato (-14,2%) e quelli di collaborazione (-24,3%), è crollato il lavoro a chiamata (-31,6%) e persino l’apprendistato, sul quale si era fatto grande affidamento, presenta un segno meno: -18,4%. Sono dati incontrovertibili che sanciscono , checchè  se ne dica, il fallimento della riforma Fornero. Non è un caso che col decreto Poletti il governo abbia cercato di correre ai ripari allargando di un tantino le maglie della flessibilità, nella speranza che  si invertisse il ciclo negativo di una disoccupazione inarrestabile e in crescita esponenziale, soprattutto nelle fasce giovanili. Ma anche su questo crinale non sembrano intravedersi elementi corroboranti. Il quadro è fermo, aggravato da una recessione drammatica, che sta togliendo alle imprese anche l’ultimo alito di ossigeno. Ecco perché ora torna in auge la discussione sull’art.18 e la questione acquista ancor di più carattere dirimente. Peraltro, sono ancora i dati a fornirci indicazioni al riguardo. Nei Paesi privi del vincolo dell’art. 18 le cose vanno in maniera diversa, nonostante la pesantezza della crisi.  La Spagna, che si trovava molto peggio di noi fino a poco tempo fa,  ha consentito il licenziamento per motivi economici anche individualmente ed ha escluso il ricorso in giudizio, lasciando alle parti la determinazione di un congruo indennizzo . Risultato ? Oggi le imprese si sentono più libere di assumere e, di fatto, stanno  assumendo. Riusciremo a fare altrettanto in Italia ? C’è da sperarlo. Purchè non si risolva la questione con il solito stratagemma di una moratoria più o meno lunga, come avverte lo stesso Giannino. Per sciogliere il nodo questa volta ci vuole la spada.

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