Il drammatico primato della Cina: anche quest’anno detiene il record delle condanne a morte

18 Lug 2014 14:19 - di Bianca Conte

Non è difficile andare al patibolo in Cina: con il codice repressivo di Pechino venire condannati a morte è semplice come bere un bicchiere d’acqua, specie da quando è stata di fatto giuridicamente istituzionalizzata l’omologazione tra la causa indipendentista e l’accusa di terrorismo, complotto antigovernativo e complicità con diverse organizzazioni criminali. E basta anche meno: oltre che per reati di terrorismo (in cui rientrano tutte le forme di dissenso politico o religioso che colpiscono spesso tibetani e uiguri), in Cina si è mandati al patibolo per reati ordinari, per droga (produzione, trasporto o traffico) per esempio, o per “semplice” opposizione al potere. Ma tant’è: il che giustifica il triste primato che il Celeste Impero detiene ormai da un po’, confermandolo ancora una volta anche nel 2013, ulteriore anno che vede la Cina come il Paese in cui è stato eseguito il maggior numero di condanne a morte. Almeno 3.000 – più o meno come nel 2012 – sulle complessive 4.106 compiute in tutto il mondo, (circa il 74,5% del totale mondiale), seguita da Iran (687), Iraq (172) e Arabia Saudita (78) secondo quanto rileva il Rapporto 2014 sulla pena presentato da Nessuno tocchi Caino.

Cifre inquietanti e decisamente approssimative considerato che le sentenze capitali sono circondate dal segreto di Stato e addirittura, in alcuni casi, le autorità neanche informano le famiglie e gli avvocati – per non parlare poi dell’opinione pubblica – sulle esecuzioni in programma. Dati drammatici, solo in parte mitigati dalla considerazione riportata nel dossier secondo la quale, nel complesso, anche nel 2013 è proseguita l’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena capitale, in atto nel mondo da oltre quindici anni, riverberando i suoi effetti positivi anche su Pechino.

In parte, infatti, le cose sembrano andare incredibilmente meglio anche in Cina dove – sempre secondo Nessuno tocchi Caino – dal 2007 a oggi si è registrato un calo del 50% delle condanne a morte. Una riduzione sensibile, rileva il report, dovuta all’entrata in vigore della riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema. Da allora, è scritto nel Rapporto, la Corte Suprema ha annullato «in media» il 10% delle condanne a morte pronunciate ogni anno nel Paese. Il decremento, prosegue, si deve anche al maggiore utilizzo della pena di morte con due anni di sospensione (che quasi sempre viene commutata all’ergastolo o a una pena detentiva a termine); al miglioramento del giusto processo e alla decisione di abbandonare l’uso dei prigionieri giustiziati come fonte primaria in Cina per la donazione di organi, malgrado prolifichino i casi di espianti illegali.

Di norma, allora, ridotte o meno, le esecuzioni avvengono con un colpo alla nuca o per iniezione letale, ma anche in Cina, come nel resto del mondo che ancora ricorre alla pena capitale, il boia può ricorrere a  decapitazioni, somministrazione di scariche elettriche, fucilazioni, impiccagioni e iniezioni letali, che sono le pratiche più diffuse. Tutto nel più assoluto riserbo: il contraltare procedurale dell’usanza tornata in voga da qualche mese dell’annuncio pubblico delle sentenze: un’usanza in vigore ai tempi della Rivoluzione Culturale, quando le parole d’ordine erano quelle di «umiliare» e «annientare» il «nemico». Le stesse di oggi.

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