E così, dopo il «suicidio» di Tavecchio, Demetrio il bradipo si accinge a rilanciare il calcio italico

30 Lug 2014 17:05 - di Redazione

Che questo Tavecchio fosse un po’ bollito, anche in forza della settantina bella e suonata, non era difficile da capirlo. Ne bisognava aspettare le banane o le «perle» di saggezza dispensate sulle donne. Che però l’alternativa a cui tutti sembrano aggrapparsi si chiami Albertini la dice davvero lunga sullo stato comatoso anche dell’italica pedata. L’ex centrocampista milanista, più schivo e riservato di uno scoiattolo, è stato cooptato in federazione sin dal 2007, poco dopo aver appeso al chiodo le classiche scarpette. Ma chi se ne è accorto? Certo, se avesse voluto, probabilmente avrebbe potuto sfruttare – come ad esempio Cannavaro – la generosità di Dubai o di qualche altro emirato, ma lui, per l’appunto schivo e riservato, pensò bene di parcheggiarsi nella struttura che meglio conosceva, coccolato da tata Abete e dal Prandelli nazionale. Anni quelli in cui il pallone italiano era in auge. E pure rispettato e temuto. Tanto per ricordare eravamo campioni del mondo in carica. E le nostre squadre di club erano sempre tra le più forti. C’era quindi la possibilità di programmare, intervenire, essere insomma protagonisti non solo in campo, ma anche dietro una bella scrivania federale. Tuttavia nessuna innovazione fu avviata, nessuna sperimentazione messa in cantiere, nessuna modifica proposta o ideata. Niente di niente. La gestione Abete fu tronfia di prosopopea, ma piatta come una pizza romana. Cosicchè, lentamente ma inesorabilmente gli altri – Germania, Francia, Spagna, ecc. – iniziarono a ridurre il gap e si attrezzarono, anche grazie a fiscalità vantaggiose, ad attrarre sempre più capitali e campioni. Mentre noi stavamo a sorbirci le grandi idee tattiche di un Ct intoccabile e indiscutibile. Il buon Albertini, che di nome fa Demetrio, messo a presidiare l’area tecnica federale, brillò per la capacità di proporre zero idee. Zero. Certo, in giacca e cravatta, visti anche i trascorsi e la scura chioma dei suoi quarant’anni, si presentava bene. Ma dietro quella presenza c’era qualche volta il sorriso, quasi sempre il silenzio. Che poi, se ci fosse stato pure altro, ce ne saremmo accorti. D’altronde di lui non c’era bisogno. Bastava e avanzava il duo Abete-Prandelli con la spocchia e la saccenza cui ci abituarono. Con folle di adulatori e nessuna critica, neppure piccola. Era l’era del codice etico e del politically correct. Roba che Valter Veltroni al confronto pareva un dilettante. Oggi, dopo un mondiale disastro e avendo assistito al «suicidio» in diretta di un anziano dirigente colpito dalla notorietà improvvisa, sembra sia la volta del taciturno Demetrio. Una goduria per il nostro calcio. Come iniettare una pinta di bromuro a un bradipo.

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