Solitudine addio. Per lo psichiatra Ciccioli l’imperativo di oggi è «connessione virale»: «Digito, ergo sum»

3 Giu 2014 12:32 - di Priscilla Del Ninno

«La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista»: così Bernardo Bertolucci ha definito un concetto oggi quasi in disuso, demonizzato quotidianamente dalle ultime generazioni, ben lontane dall’idea che il ritrovarsi faccia a faccia con se stessi possa essere, come Albert Camus scriveva nei suoi Taccuini, un «lusso dei ricchi». Finita in naftalina, sotto coltri di polvere etica, la solitudine è stata rimpiazzata dalla moda sociale imperante che ammicca alla condivisione perenne e all’ostentazione mediatica di questa incapacità a star da soli ormai cronica, causa di sintomi degenerativi comportamentali che, dal selfie compulsivo alla chat da tenere viva anche quando si è in metro o sul bus, stanno endemizzandosi in maniera virale. E allora, dai navigatori che dovrebbero essere solitari, continuamente on line per aggiornare il diario di bordo, agli appunti di viaggio postati in Rete da escursionisti ed esploratori, passando per il cinema che, da Hello Denise di Hal Salwen a Tracks di John Curran, ha scandagliato il tema e le sue rivisitazioni, fino alle infinite indagini sociologiche e alle nuove trovate giapponesi che al bar forniscono a clienti soli il pupazzo da compagnia, regolarmente approdato sul web, sono infinite le dissertazioni sul tema davanti a questo teatrino dell’assurdo contemporaneo. E infiniti gli approcci analitici e gli esiti interpretativi. Con un comune denominatore di partenza: la tecnologia ha apparentemente aiutato il contatto, inibendolo però nella sua sostanza. Ne abbiamo parlato con lo psichiatra Carlo Ciccioli a cui per prima cosa abbiamo chiesto se questa necessità di essere perennemente in compagnia, ininterrottamente connessi, mini in effetti la possibilità che la solitudine possa essere considerata anche un valore.

Partiamo dall’assioma di fondo della nostra contemporaneità, che si basa sul presupposto che solo se appari esisti. Perché postarsi e proporsi continuativamente in Rete altrimenti? Solo se sei presente nella vetrina mediatica puoi affermare la tua presenza: «Digito, ergo sum»: ed è una modalità esistenziale inaugurata qualche decennio fa, quando è cominciata la moda delle attrici, delle veline, del gossip eletto a sistema auto-promozionale sui giornali, quotidiani compresi: un criterio sociale in base al quale il peso e il prestigio di una persona viene determinato dalla sua capacità di apparire. Un principio completamente in contrapposizione al mito del pensiero antico, secondo cui dovevi mostrarti solo davanti a Dio. Tutte le storie del monachesimo, intorno all’anno Mille, tracciano infatti il ritratto del monaco inteso come una monade, come un’essenza che doveva apparire esclusivamente  davanti a se stesso e davanti al sacro, mentre, al contrario, evidenziarsi all’occhio umano era quasi disdicevole. Adesso si è ribaltato il valore: siccome l’Alto e l’Eterno hanno perso prestigio e appeal, devi apparire davanti ai mortali e tutto comincia e finisce davanti a loro.

Un’inversione di rotta  culturale non da poco. E cosa ha prodotto secondo lei?

Un morboso bisogno di presenziare in Rete, anche con le degenerazioni peggiori: come reclamizzare il fatto di dare un cazzotto in faccia a un passante qualunque; la mania di proporsi sessualmente; la tendenza a brutalità da ostentare e rilanciare sulla piattaforma globale. Se pensiamo che alcuni degli atti più efferati, alcuni degli ultimi tragici gesti che accadono in varie parti del mondo, si verificano solo per essere poi postati on line, il quadro si chiarisce da sé. E si dà a una risposta allo sgomento suscitato da quegli studenti americani che compiono una strage nel campus, o nella scuola, o nel supermercato. Al terrore provocato dagli atti di guerriglia urbani firmati dalla jihad islamica a colpi di video testamenti postati sul web. Tutti questi capitoli dell’orrore hanno un comune denominatore nel fine ultimo dei loro protagonisti-carnefici: apparire, dunque affermare di esistere.

E venendo a contesti più ordinari e meno eclatanti?

Nella quotidianità, invece, la smania è quella della connessione perpetua, l’ansia di coltivare l’amicizia virtuale che sostituisce quella reale. Le persone sono sempre più fragili e lo scambio effettivo intimorisce: dunque ci si scherma dietro le conoscenze on line, le chat, dietro il contatto internetico che è “protetto”, e quindi più facile. Pensiamo agli insulti della Rete: sui blog, sui social network, ci si dice delle cose terribili; poi, quando tu vai a conoscere quello che ti ha insultato, trovi una persona fragile e incapace di dire le cose che ha postato.

Dunque la gente ha paura di essere sola e vuole disperatamente apparire per affermare di esistere, ma allo stesso tempo è incapace di comunicare realmente?

Esattamente. Se in passato, dalla Grecia antica al mondo cristiano, esisteva il mito dell’incontro, adesso c’è la paura che questo avvenga concretamente, il che non può che rarefare le relazioni e lo scambio umano.

Vasco Rossi ha proposto l’introduzione a scuola dell’ora di solitudine, per insegnare ai ragazzi  a rimanere soli con loro stessi: cosa ne pensa? 

Gli artisti parlano spesso per paradossi: e un’ora di solitudine per me è un paradosso. Al contrario, a scuola suggerirei l’esatto opposto: degli spazi di socializzazione in cui i ragazzi possano imparare a comunicare tra di loro senza Internet, confrontandosi sulla prova della ricerca di un contatto vero, autentico.

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