Sarebbe utile un esame di coscienza sul vero razzismo. Anche quello che colpisce Scampia…

26 Giu 2014 20:02 - di Girolamo Fragalà

Il vero razzismo è quello strisciante, che non fa rumore e che s’inchioda nel pensiero delle persone trasformando un’ipotesi o un’illazione nella realtà. E questa realtà viene trasmessa negli anni, vengono costruite idee preconcette, si dà vita a stereotipi. Non ne sono vittime gli immigrati, come spesso il politicamente corretto vuol far credere, perché chiedere controlli e limitare le invasioni delle coste non significa essere razzisti ma razionali. Non ne sono vittime i gay, perché essere contro i matrimoni e le adozioni omosessuali non significa essere razzisti ma voler conservare tradizioni e princìpi radicati nei secoli. Non ne è stata vittima la Kyenge, al di là delle battute sopra le righe, perché qualsiasi politico è oggetto di critiche e di ironie. Lo stesso dicasi per la Boldrini, sbeffeggiare le sue gaffe non è offesa sessista. Il razzismo è nelle etichette incollate sulle carte d’identità, che ti porti indietro per tutta la vita. Etichette che fanno più male e meno male. Fanno meno male quelle che vogliono i genovesi tutti tirchi, i settentrionali polentoni, i milanesi lavoratori indefessi. Fanno più male quelle che vogliono i romani tutti coatti. Fanno malissimo quelle che vogliono i napoletani tutti violenti, sfaccendati, pizza e mandolino, «che non si lavano» o altre stupidate del genere; i meridionali «tutti della stessa pasta, non vogliono lavorare»; i calabresi «omertosi»; i siciliani «sospetti mafiosi». Non è così, sono pessimi stereotipi che si tramandano nel tempo, creati dall’ignoranza. O meglio, creati da quegli ignoranti che si sentono superiori quando raccontano che ignorante è l’altro.

Un noto cantante partenopeo, Nino Buonocore, che ha vissuto una stagione di successo, puntualmente era costretto a speficare che sì, era napoletano, ma cantava brani d’autore, di spessore, e non roba dei vicoli, altrimenti il pubblico lo accoglieva con freddezza e non trovava spazio. Chi è nato o vive a Scampia, dove viveva Ciro Esposito, il tifoso morto dopo tanti giorni di sofferenze, è bollato a vita, sempre a causa del «sentito dire». Eppure lì, in quel quartiere difficile, ci sono tante persone perbene, lavoratori onesti, gente che si sacrifica per portare avanti la famiglia. Non a caso dalla famiglia di Ciro Esposito sono giunti messaggi di pace e buon senso. Dalla madre di Ciro Esposito è arrivato un appello coraggioso per fermare la violenza dentro e fuori gli stadi che stride con il silenzio di istituzioni distratte quando muore un tifoso del Napoli, un ragazzo di Scampia. Perché i napoletani di quel quartiere, anche se si presentano fuori dai confini del loro rione, restano «di Scampia», quindi delinquenti da tenere alla larga. Razzismo puro, perché in ogni città, in ogni metropoli, ci sono zone ad alto tasso di rischio, ma nessuno si sogna di farne un pregiudizio verso l’intero popolo. Solo per i campani, i calabresi e i siciliani si va giù duro con una generalizzazione pessima. Sarebbe fin troppo facile rispondere con la storia di queste regioni, con i figli che hanno regalato all’Italia, con la cultura che hanno portato in ogni angolo del mondo. Sarebbe facile ma inutile, tanto chi non vuole ascoltare, non sente. E non sente la politica, incapace di vedere dov’è insinutato il vero razzismo. Non solo nelle curve ma ovunque, nei bar, nelle salumerie, nei ristoranti, nei centri commerciali. «I ragazzi di Scampia – ha detto don Aniello Manganello, il prete anticamorra – sono stati vittime di episodi di razzismo pesantissimi domenica scorsa, in occasione della finale regionale per il passaggio in Promozione tra Virtus Avellino e Oratorio Don Guanella, giocata sul campo del rione San Tommaso di Avellino a porte chiuse per inagibilità del campo, ma tutti hanno fatto finta di niente. Ora siamo stufi». Tutti hanno fatto finta di niente. Come da decenni. Come sempre.

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