Pagine di Storia/ 90 anni fa i cow-boy “graziarono” gli indiani: sono americani anche loro…

2 Giu 2014 19:43 - di Antonio Pannullo

Era presidente il repubblicano Calvin Coolidge il 2 giugno del 1924, quando il governo degli Stati Uniti stabilì che i “nativi” americani fossero cittadini americani, purché nati all’interno del territorio federale. Poterono integrarsi e anche votare, ma la segregazione razziale, come è noto, rimase sino al 1964. Oggi, novant’anni dopo, è un po’ dura da digerire: concedere la cittadinanza americana a chi in America c’era da sempre. Ma la storia è fatta di questi paradossi. Forse Washington intendeva,con quell’atto, rimediare al famigerato Indian removal act, firmato dal presidente Andrew Jackson (democratico) nel 1830. Questa legge. l’Atto di rimozione degli Indiani, voluta da coloro che anelavano a invadere e sfruttare le vaste e ricche terre fino allora occupate dalle Cinque tribù civilizzate, come erano chiamati quegli indiani che avevano buoni rapporti con i coloni e che talvolta ne avevano adottato le usanze; in una parola, che si erano integrati. Per tutto ringraziamento, il governo federale li deportò dagli Stati del Sud, dove vivevano, verso l’Ovest, allora quasi inesplorato e comunque non intensivamente sfruttato dai bianchi. Allora erano genericamente chiamato Territorio indiano, e in pratica corrisponde all’attuale Oklahoma occidentale. L’operazione durò qualche decennio, e conobbe il suo momento più drammatico – che ci è stato raccontato anche dai film western –  nel 1831, con il trasferimento forzato della tribù dei Choctaw a est del Mississippi, lungo quello che è stato chiamato “il sentiero delle lacrime”. Freddo, fame e malattie falcidiarono gli indiani durante la loro marcia forzata: ne morirono 60mila su 130mila. Dopo di loro toccò ai Seminole nel 1832, ai Creek nel 1834, ai Chickasaw nel 1837, e ai Cherokee nel 1838. Poi vennero la guerra di secessione, la prima guerra mondiale, conflitti nei quali i nativi dettero il loro eroico contributo: l’ultimo generale confederato ad arrendersi, il 23 giugno 1865, ossia un mese dopo l’armistizio di Lee a Grant, era Stand Watie, un Cherokee, precisamente il capo della nazione Cherokee. Insomma, gli indiani all’inizio del secolo scorso, dopo la fine delle guerre indiane e soprattutto dopo la completa conquista da parte degli invasori dei loro territori, avrebbero anche potuto diventare a tutti gli effetti cittadini americani, in particolare ora che erano rinchiusi nelle riserve… Gli indiani, come anche loro oggi preferiscono essere chiamati, arrivarono nel nord America all’incirca 13mila anni fa, passando per lo stretto di Bering, per poi ridiscendere verso il Sud. Venivano probabilmente dagli altopiani mongoli, come hanno comprovato alcune ricerche scientifiche soprattutto sugli Apaches e sui Navajos, ma sicuramente vi furono diverse migrazioni in epoche differenti. Non si sa quanti fossero al momento dell’arrivo di Cristoforo Colombo, ma si sa per certo che in quattro secoli ne furono sterminati circa il 90 per cento. Naturalmente non con le armi, o almeno non tutti, ma con la distruzione delle loro risorse, con le malattie infettive, con le privazioni, con le deportazioni e anche con le sterilizzazioni forzate. Le ragioni della sconfitta storica degli indiani sono molte, ma certo non può essere sottaciuta quella della loro frammentazione in tribù e clan, che non consentì loro di fare fronte contro un pericolo comune. Anzi, forse la portata reale di quanto fosse grande quel pericolo non la compresero mai. Erano, in Nordamerica, forse dieci milioni, e vivevano  in numerose tribù disunite e addirittura spesso ostili tra loro. Con l’arrivo del cavallo, importato dagli europei, per gli indiani cambiò poco, se non che le tribù sedentarie di coltivatori e raccoglitori vennero invase e costrette alla fuga dai cacciatori che avevano imparato a utilizzare superbamente il cavallo. Comunque la loro sorte era segnata: al di fuori di qualche loro successo militare ormai famoso, gli indiani furono sterminati e messi in condizione di non nuocere. L’inizio del Novecento li trovò completamente sconfitti dall’invasore e rinchiusi nelle riserve che, se all’inizio furono degli autentici lager, progressivamente si trasformarono in “semplici” ghetti. Come accennato, bisognò attendere il 1964 il Civil Rights Act varato dal presidente Lyndon Johnson (ma preparato e voluto dal suo predecessore John Kennedy) per vedere negli Stati Uniti la fine della segregazione razziale. La situazione degli indiani oggi non è delle migliori, anche se nel tempo hanno costituito una specie di lobby economica, ma per anni l’emarginazione e l’alcolismo hanno afflitto la comunità “nativa”. L’indiano è ora per l’Occidente un’icona, celebrata soprattutto da Hollywood, nell’immaginario collettivo è sempre il guerrieo, fiero e coraggioso, che sul suo cavallo sconfigge gli odiati Lunghi Coltelli di Custer… Ma la realtà, purtroppo, è sempre diversa dal sogno.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *