«Niente paragoni con Renzi, Tintin aveva il “padre” fascista»: polemica sul “fumetto maledetto”

3 Giu 2014 16:15 - di Marco Valle

Matteo Renzo come Tintin? È la provocazione simpatica quanto spregiudicata de l’Internazionale, il settimanale goscista di politica estera. Con un certo brio il direttore Giovanni De Mauro ha rivisitato per il numero in edicola la copertina dell’album Tintin au pays de l’or noir, sostituendo il mitico personaggio di Hergè  con una caricatura del fiorentino; al suo fianco, sostituendo l’irascibile comandante Haddock e i Dupont, l’impaginatore ha posto Alexis Tsipras, Marine Le Pen e l’albionico Farange. Solo il delizioso Milou, il fedele amico a quattro zampe di Tintin, ha mantenuto il suo fiero aspetto canino.

Uno scherzo grafico, nulla di più. Eppure vi è chi non ha gradito. Sulla rete — vedi le pagine FB dedicate al piccolo belga — un plotone di zelanti guardiani del “fumetto politicamente corretto” ha subito aggredito il buon De Mauro indignandosi per la scelta. Tintin o non Tintin, Renzi o non Renzi, per le prefiche ultrademocratiche Hergè rimane un nome maledetto. A distanza di trentun anni dalla sua morte non vi è pace per il maestro belga. Nonostante il successo mondiale del personaggio, i riconoscimenti e la nuova giovinezza cinematografica spielberghiana (a proposito, è in lavorazione la nuova puntata della saga), vi è chi non perdona  ad Hergè il suo “passato maledetto”. Già, per le solite sentinelle il papà di Tintin era un fascista, un collaborazionista. Dunque da dimenticare, altro che copertine su una rivista democratica.

Stupidaggini. Il personaggio Hergè fu molto più complesso, intrigante delle letture affrettate e interessate vergate dai suoi denigratori e dai suoi esegeti e travalica le censure (vedi il denso catalogo del Musée Hergè, editato in Italia dall’Ippocampo) operate dalla disinvolta vedova Fanny.

Figlio del Belgio cattolico — un cattolicesimo antimodernista e conservatore — del primo dopoguerra, Georges Remy (il suo vero nome) condivise le ansie e i sogni dei suoi coetanei — insofferenti della pingue normalità de le plat pays — trasformandoli in disegni. In avventure. Approdato dal movimento scout — un passaggio centrale della sua formazione — alle pagine di un quotidiano cattolico vicino a Charles Maurras, Le Vingtième Siécle, Georges iniziò a tratteggiare un mondo immaginario che rispecchiava il suo impianto valoriale: coraggio, fede, onestà, lealtà, disinteresse. Amicizia. Tintin ne fu la proiezione assoluta.

Nella redazione Hergè incontrò un giovane scalpitante giornalista, Leon Degrelle. I due divennero amici — un legame che Hergè non smentirà mai — condividendo l’ammirazione per Maurras e la passione per le belle donne; negli anni seguenti l’artista illustrò le copertine di alcuni libri del pirotecnico redattore evitando però di seguirlo nell’avventura politica di Rex, il partito filofascista belga. Concentrato sul suo personaggio, chiuso nelle sue fantasie, Georges si tenne lontano dalle asprezze e le cattiverie della lotta partitica.

Il suo mondo era Tintin, solo Tintin. Ed è soltanto seguendo il suo protagonista possibile delineare lo scenario interiore, il pensiero di Hergè:  un personalissimo caleidoscopio in cui s’intrecciano Baden Powell e Verne, Maurras e il National Geographic, Hitchcock, Lèvi-Strauss e Albert Londres. Le coordinate rimangono solide: un convinto e mai smentito anticomunismo (a Tintin au pays des Soviets seguirà nel 1954 L’Affaire Tornesol ambientato in piena guerra fredda), un iniziale paternalismo colonialista tipico dell’epoca (Tintin au Congo) ma anche un forte fastidio verso l’aridità dell’americanismo, l’avidità del capitalismo (Tintin en Amerique) ed una sempre maggior simpatia — superando schemi consolidati —  per i popoli oppressi (i pellerossa in particolare).

Il punto di svolta — la maturità artistica — verrà nel 1936 con Le lotus bleu, la grande avventura tintinesca nella Cina in guerra. Pagina dopo pagina, tavola dopo tavola, Hergè trasformò il suo album in una denuncia contro l’invasività degli occidentali — in particolare i mai amati anglo-sassoni — e l’imperialismo nipponico. Tintin scopriva la geopolitica… Ma l’album più significativo dell’anteguerra rimane Le Sceptre d’Ottokar, realizzato alla vigilia del conflitto. Da buon nazionalista belga, Remy non amava i vicini tedeschi e confidava nel re Leopoldo III, considerandolo garanzia di concordia e indipendenza nazionale. La vicenda, ambientata in una Sildavia di fantasia, s’ispirava all’inutile conquista italiana dell’Albania del 1939. Tintin, grazie a Milou, salverà il trono di re Muskar XII — un omaggio al suo amato sovrano impegnato in una difficile lotta per la neutralità — e la libertà del piccolo regno balcanico ma nulla potrà contro i panzer germanici che invasero il Belgio nel maggio 1940.

Convinto dall’appello di Leopoldo III a rientrare in patria dopo un frettoloso esilio in Francia, Hergè riprese a lavorare sui quotidiani brussellesi e fiamminghi, controllati abbastanza blandamente dall’autorità tedesca d’occupazione. Nessuno — al di là degli entusiasti tintinophlies —  ci fece caso. Georges, come tutti, cercava di sbarcare il lunario e, rinchiuso nella sua bolla creativa, disegnò di gran lena tre album e — sempre fedele a Leopoldo, prigioniero nel suo castello alla periferia della capitale — si tenne distante dagli ambienti collabòs. Come raccontò Degrelle, partito volontario sul fronte dell’Est, Remy rimase estraneo ad ogni impegno politico. Una scelta forse di comodo ma comprensibile: l’artista, monarchico maurrasiano e cattolico, poco o nulla poteva condividere con i separatisti fiamminghi di Van Severen o con i rexisti ormai marginali e in piena deriva filotedesca.

Alla vigilia dell’arrivo degli alleati, la non gloriosa resistenza belga — un fenomeno marginale sino al 1943 — cercò di farsi perdonare il suo prudente attendismo e iniziò a stilare liste di “traditori”. In mancanza di grandi nomi (Degrelle e il meglio della sua gente — compreso il fratello di Georges Simenon — stavano battagliando contro i sovietici e gli industriali filo-tedeschi erano intoccabili) gli improvvisati “patrioti” cercarono vittime tra i giornalisti, gli intellettuali, gli artisti. Alla rinfusa, senza pietà. Nel settembre 1944 il timido, leopoldista e molto invidiato Hergè si ritrovò improvvisamente incarcerato, poi scarcerato e infine bandito. Relegato tra gli “incivici”, i maledetti.

Un trauma inatteso e pesante che lo segnerà per tutta la vita. «È stato orribile, orribile», diceva il maestro ogni volta raccontava quell’esperienza. Per fortuna d’Hergè le motivazioni non ressero: «Se lo avessimo trascinato in giudizio ci saremmo coperti di ridicolo», commentò un arcigno responsabile della denazificazione.

Nel settembre 1946 usciva — finanziato da due callidi editori “patrioti” — la rivista interamente dedicata a Tintin. Un successo pieno. L’avventura poteva ripartire. Ciò nonostante Georges presenziò, in segno di solidarietà, al processo contro 26 colleghi de Le Soir imputati di “intelligenza con il nemico”, aiutò l’amico Jacques Van Melkebeke — imprigionato, a causa delle sue matite,  “per tradimento” —  e, più tardi, raggiunse in Svizzera il detronizzato Leopoldo ormai  in esilio. Atti di coraggio nel segno dell’amicizia e della fedeltà. I suoi valori di sempre.

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