Ucraina, plebiscito per i separatisti. Ma per Ue e Usa il voto è illegale

12 Mag 2014 8:59 - di Redazione

È un plebiscito annunciato il controverso referendum indipendentista nelle regioni russofone dell’Ucraina orientale di Donetsk e Lugansk, organizzato anche tra le barricate dai secessionisti filorussi. Lo conferma il risultato ”sostanzialmente definitivo” annunciato dal presidente della commissione elettorale dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk, Roman Liaghin: 89,07% a favore, 10,19% contro. Ma lo lasciava presagire anche l’alta affluenza (oltre il 70% a metà pomeriggio di domenica) dichiarata dai separatisti del ricco bacino metallurgico-minerario del Donbass, che vale il 20% del pil nazionale. Un voto che per l’Occidente è ”illegale”, come ha ribadito anche la portavoce del capo della diplomazia europea Catherine Ashton, che il presidente francese Francois Hollande ha bollato come «nullo e non valido» e che gli Usa hanno condannato fin dalla vigilia con parole durissime. Ma soprattutto un voto che per Kiev è una «farsa criminale ispirata, organizzata e finanziata dal Cremlino», come ha denunciato il ministero degli esteri. Sullo sfondo, rispettivamente, le speranze e i timori che la Russia lo possa utilizzare come pretesto per una ulteriore annessione in stile Crimea o per riconoscere un’altra repubblica secessionista, come l’Ossezia del sud e l’Abkazia in Georgia. O la Transnistria in Moldova, le cui autorità hanno sequestrato al vicepremier russo Dmitri Rogozin, in partenza da Chisinau, una petizione che chiede a Mosca un abbraccio analogo a quello della Crimea. Uno scenario nel quale va segnalato il mutato atteggiamento dell’oligarca Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco del Paese, il re del Donbass e il patron del club calcistico dello Shaktar Donetsk, che proprio domenica stasera ha conquistato il suo nono titolo nazionale: Metinvest, la holding del magnate ex finanziatore del deposto presidente Ianukovich, ha chiesto a Kiev di non usare l’esercito contro il ”pacifico Donbass”, ma d’ascoltarne la voce, annunciando addirittura ”brigate di volontari” tra i propri dipendenti «per mantenere l’ordine assieme alla polizia municipale a Mariupol», secondo centro della regione teatro il 9 maggio di un sanguinoso blitz delle forze ucraine. Una scelta di campo, quella di Akhmetov, che potrebbe dare la spallata decisiva alla secessione, tanto che il capo dell’amministrazione presidenziale Serghiei Pashinski, pur escludendo al momento che Akhmetov sia tra i finanziatori della rivolta, lo ha sollecitato a «ritornare alle sue precedenti dichiarazioni a favore di un’Ucraina unita e indipendente» perché la sua richiesta rischia di ”diffondere l’infezione attraverso tutto il Paese». Il voto si è svolto in un clima di relativa calma in circa 3000 seggi per circa 5 milioni di elettori (3,2 nella regione di Donetsk, 1,8 in quella di Lugansk), a volte in seggi desolatamente semivuoti, a volte invece con lunghe code, come a Mariupol o tra le barricate di Sloviansk. A Svatove, cittadina di 20mila abitanti nella regione di Lugansk, a 50 chilometri dal confine russo, il sindaco Ievgheni Ribalko si è invece coraggiosamente rifiutato di organizzare la consultazione dicendo per due volte “niet” ad alcune decine di uomini armati che avevano tentato di convincerlo del contrario. Impossibile verificare la reale affluenza di una consultazione senza osservatori indipendenti o internazionali, svoltasi peraltro con il coprifuoco o ”clandestinamente” in alcune località assediate. E turbata qua e là dai blitz della Guardia nazionale ucraina per impedire la consegna delle schede o per sequestrarle: a Krasnoarmeisk è stato ucciso anche un civile. Singoli episodi di irregolarità sono stati segnalati da alcuni dei 500 giornalisti stranieri sguinzagliati nell’area, come il voto multiplo in piu’ seggi o con il passaporto di altre persone, oppure pacchi di schede già votate. La consultazione, di trasparente, sembra avere in ogni modo solo le urne: le liste degli aventi diritto sono quelle del 2012 (Kiev ha bloccato i database), le commissioni elettorali sono a senso unico. Ma per Kiev e l’Occidente, che minaccia Mosca di nuove sanzioni, l’unico voto che conta è quello delle prossime presidenziali del 25 maggio, dopo le quali il vincitore dovrà convocare anche nuove elezioni legislative, come ha annunciato il candidato favorito: un altro oligarca, Petro Poroshenko.

 

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