Scajola, lista dei consigli agli avvocati di Matacena per ottenere l’asilo in Libano

31 Mag 2014 12:12 - di Redazione

Aveva preso una sbandata per la moglie dell’amico che era latitante. E che lui cercava di aiutare a espatriare da Dubai per arrivare in Libano dopo la sua condanna definitiva a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Ossessionato dalla donna, dalla sua travolgente bellezza, dalla sua vitalità alla quale non riusciva a stare dietro, Claudio Scajola aveva messo sulle sue tracce tanto la segretaria personale quanto gli uomini della sua scorta. Smaniava per le attenzioni che a Chiara Rizzo sembrava rivolgere Francesco Bellavista Caltagirone. O almeno lui riteneva così.

Si dannava l’anima per coprirla d’attenzioni, di fiori, di regali, la pressava, impazziva all’idea che qualcuno le prestasse le stesse attenzioni che le prestava lui ma, al contempo, l’ex-politico ligure buttava, ogni tanto, un’occhio preoccupato alle sue finanze: i tre conti correnti che lui aveva acceso, uno presso il Banco di Napoli di Montecitorio, il secondo presso la Bnl del Viminale ed il terzo presso la Banca Carige di Imperia mostravano cedimenti. In qualche caso aveva sforato i fidi. E così aveva incaricato la segretaria personale di fare la lista della spesa. Voleva capire quanto spendeva al mese l’ex-ministro, qual era il suo bilancio familiare.
Quando Chiara Rizzo chiamava, però, lui era sempre pronto. E si era messo a disposizione per risolverle quel “problemino”, la latitanza del marito Amedeo Matacena. Così aveva buttato giù un appunto per evidenziare ai legali di Mat cheacena quali dovevano essere i binari sui quali far correre la richiesta di asilo al Libano, quali erano le leve da muovere, quali gli elementi da giocarsi. Quel documento, vergato a mano su carta intestata della Camera dei Deputati, Claudio Scajola se l’è ritrovato sotto il naso il 16 maggio scorso quando, nel carcere di Regina Coeli, si è seduto davanti ai magistrati Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio lo hanno interrogato e che gli hanno chiesto conto, carte alla mano, di tutto quel suo attivismo per agevolare la latitanza di Matacena fino al punto di spianargli la strada verso il Libano. Almeno questo è quello che sospettano i magistrati.
L’ex-ministro si è assunto la paternità del documento ma il suo avvocato giura che le ricostruzioni di quell’interrogatorio, il cui verbale è stato decretato e poi coperto di omissis, non sono esatte. Di più, sono «da considerarsi destituite di ogni fondamento». Ai pm l’ex ministro dell’Interno racconta che dopo avere ricevuto il fax, attribuito all’ex-presidente del Libano, Amin Gemayel, ha «predisposto un appunto in cui indicavo i punti che Speziali mi aveva detto di portare all’attenzione degli avvocati di Matacena per la procedura di asilo».
Era stato lo stesso Vincenzo Speziali, imprenditore catanzarese nipote omonimo dell’ ex senatore Pdl e ben introdotto con alcune personalità di rilievo libanesi, a proporre a Scajola un incontro con Chiara Rizzo ed un consigliere di Gemayel «per affrontare l’argomento».
Ma la partecipazione del consigliere di Gemayel era poi saltata, dice Scajola ai magistrati «qualche giorno prima della data fissata». Tanto è vero, aggiunge, «che mi era stato detto che avrebbero mandato una lettera che lo Speziali riferiva a Gemayel». Lettera sequestrata il giorno dell’arresto di Scajola, scritta al computer ed in francese: «Mi occuperò a partire da domani di trovare un modo riservato per farlo uscire dagli Emirati Arabi poiché tratteremo il dossier con molta attenzione» era scritto nella lettera indirizzata al «caro Claudio». E poi proseguiva: «ho potuto patrocinare la questione e abbiamo già convenuto che una volta qui, egli potrà beneficiare, in maniera riservata, della stessa posizione che egli ha a Dubai».
È dopo la ricezione di questa lettera che Scajola prende carta e penna e scrive l’appunto per i legali di Matacena indicando quattro punti su cui fare leva per ottenere l’asilo in Libano: «evidenziare la condanna di reato associativo per mafia inesistente nel Codice libanese; persecuzione di carattere giudiziario per finalità politiche; storia dei processi; supplica di asilo per fini umanitari e di carattere medico». Poi le raccomandazioni finali: «consegna diretta all’ambasciata Roma» e «ciò dovrà essere compiuto immediatamente dopo l’insediamento del nuovo esecutivo» libanese.
Dagli interrogatori, in particolare quello della segretaria di Scajola, Roberta Sacco, liberata ieri per decisione del Tribunale della Libertà di Reggio Calabria emerge, a margine della vicenda giudiziaria, l’imbarazzo della collaboratrice dell’ex-ministro per i tete a tete fra la Rizzo e il politico ligure. La segretaria ha ricostruito in un memoriale tutte le volte che il suo datore di lavoro l’ha incaricata di pedinare o far pedinare la donna, di inviarle mazzi di fiori o regalino, dei pranzi fatti preparare dal catering di un bar durante i quali l’ex-ministro disponeva di essere lasciato solo con la Rizzo telefonando poi alla segretaria per dirle quando poteva tornare in ufficio. Un quadretto che fa da contorno alla vicenda più problematica contestata dai magistrati sull’affair Matacena.
I magistrati ora si apprestano ad ulteriori riscontri mentre gli avvocati proseguono nella strategia di appellarsi al Tribunale del Riesame e a quello della Libertà. Che ieri si è appunto espresso a favore del rilascio di Roberta Sacco ma anche di Antonio Chillemi, amministratore delegato della società Amadeus, la holding della famiglia Matacena, anche lui ai domiciliari. Oggi è stata la volta del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria che ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip nei confronti di Raffaella De Carolis, madre di Amedeo Matacena, revocandole così gli arresti domiciliari, mentre ha deciso la scarcerazione e la concessione dei domiciliari per Martino Politi, indicato come il factotum dell’imprenditore.

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