In svendita il “Made in Italy”: ora anche Ragù e Bertolli in mano straniera. In 4 anni all’estero quasi 500 marchi

23 Mag 2014 11:54 - di Ginevra Sorrentino

Lo scaffale delle nostre eccellenze agro-alimentari è sempre più vuoto. Il brand del Made in Italy periodicamente depauperato dei marchi che sono stati il fiore all’occhiello del suo blasone. E dopo il passaggio in mani straniere di aziende tipiche che hanno nutrito storia e tradizioni gastronomiche del Bel Paese, dall’Orzo bimbo agli spumanti Gancia, dai salumi Fiorucci alla Parmalat, dalla Star alla produzione di vino Chianti nel cuore della Docg del Gallo Nero, divenuta di proprietà di un imprenditore cinese, da oggi anche le etichette Ragù e Bertolli (la divisione sughi e piatti pronti) saranno della giapponese Mizkan, che ha concluso l’affare con il big mondiale dell’alimentare Unilever per 2,5 miliardi di dollari (circa 1,6 miliardi di euro). L’accordo include la cessione di due stabilimenti di produzione negli Stati Uniti. Un fatturato di diversi miliardi di euro dall’inizio della crisi ad oggi, quello che negli ultimi quattro anni ha trasferito quasi 500 marchi nostrani in mano straniera, e che ha alimentato il mercato della svendita del patrimonio imprenditoriale italiano, spersonalizzando la tipicità dei nostri prodotti. Insomma, cosa resterà della ricetta tipica del ragù alla bolognese negli Stati Uniti e in Giappone? E il passaggio di Poltrona Frau all’americana Haworth ha davvero reso omaggio all’eccellenza manufatturiera italiana? Cosa c’è della casa di moda Krizia finita nel Celeste Impero? Cosa resta, insomma, del nostro marchio doc, di queste aziende passate nelle mani di acquirenti stranieri? Ben poco, purtroppo, come ha evidenziato un recente rapporto emblematicamente intitolato Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita, presentato dall’Eurispes: l’amara certificazione, in cifre, riscontri e deduzioni, se mai ce ne fosse stato bisogno, di un Made in Italy sempre meno italiano.
Secondo l’indagine, allora, da Lamborghini ad Algida, dai tedeschi ai giapponesi, passando per cinesi e americani, dal 2008 al 2012 sono 437 i gioielli di famiglia acquistati da imprenditori all’estero. L’amara conferma matematica di una verità di mercato che svela impietosamente come molte delle nostre più insigni aziende fondate in Italia, simbolo della nostra migliore produzione artigianale, e che hanno vissuto momenti di successo e di crisi, abbiano chiuso iperboli ascendenti e parabole discendenti con un mero cambio di proprietà e di bandiera. «È scandaloso che il nome comune di una ricetta tipica della tradizione italiana sia diventato un marchio registrato da una multinazionale venduta e comperata dagli Stati uniti al Giappone senza alcun legame con la realtà produttiva del Made in Italy», ha commentato allora il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo, a proposito dei marchi Ragù e Bertolli. «È un episodio – ha poi concluso – che conferma la disattenzione con cui nel passato è stato difeso il patrimonio agroalimentare nazionale, che ha portato nel tempo troppi a fare affari nel mondo con il falso Made in Italy, che nulla ha a che fare con la realtà produttiva e occupazionale del Paese». Come se peraltro, dopo lo Spicy thai pesto statunitense, il Parma salami messicano, una mortadela siciliana dal Brasile, un salame calabrese prodotto in Canada, il provolone del Wisconsin, ce ne fosse un ulteriore bisogno…

 

 

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