È polemica dopo il licenziamento della direttrice del Nyt. Rauti: «Il salario accessorio fonte di discriminazione»

15 Mag 2014 13:09 - di Priscilla Del Ninno

La guerra tra i sessi travolge l’Olimpo editoriale a stelle e strisce: ma stavolta non sono le divinità femminili a pilotare a suon di intercessioni gli eventi decisi dai potenti dei, ma quelle destinate a subirli. Così, accade che nell’ambìto – quanto litigioso – regno del New York Times, venga «licenziato in tronco» un nume tutelare del giornalismo americano come Jill Abramson. E tra affermazioni, smentite, record stagionati e nuovi primati, accade che la prima donna entrata in 160 anni di storia del giornale nella plancia di comando alla guida della blasonata testata venga sostituita dal primo direttore afro-americano, Dean Baquet, ristabilendo l’ordine sessista delle cose. La Abramson, riporta allora Ken Auletta sul New Yorker, sarebbe stata convocata venerdì scorso dall’editore Arthur Sulzberger, che avrebbe informato la direttrice uscente del necessario «cambiamento» ai vertici del giornale. Tra le ragioni dell’insoddisfazione del management ci sarebbe stata, secondo l’esperto di mass media del New Yorker, la richiesta di Jill di «stipendio e pensione» pari a quelli di altri colleghi maschi, ad esempio l’altro ex direttore Bill Keller, che di recente ha lasciato il giornale per una impresa giornalistica solo online. Inutile dire che la ricostruzione fornita da Auletta ha immediatamente aperto il fianco a un ritorno in grande stile delle accuse rivolte già in passato al New York Times, di essere un baluardo della cultura «machista», anche se ammantata di ragioni moderniste di stampo rigorosamente democrat. Gli strali polemici sono rimbalzati inevitabilmente in Rete dove, tra accuse redazionali, sentenze amministrative e difese d’ufficio, sono rimaste impigliate ipotesi e recriminazioni. C’è chi dice che la direttrice abbia scontato con l’estromissione immediata, ad appena due anni e mezzo dalla nomina, l’“ardita” richiesta di un trattamento economico pari a quello dei suoi colleghi maschi. Così come c’è chi addita tra i motivi della sua defenestrazione una gestione “discutibile” dei rapporti con i suoi collaboratori. Fatto sta che le è toccata una sorte professionale “ingloriosa”: quella dell’estromissione improvvisa che peraltro la Abramson ha condiviso nelle stesse concitate ore con la collega francese Natalie Nougayrède, direttrice “sfiducata” di Le Monde, caduta sul campo della battaglia editoriale scoppiata in nome della digitalizzazione.
Una capitolazione doppia, insomma, che rinnega sforzi e conquiste intestate al principio della parità dei sessi e che offende l’impegno di coloro i quali si battono da sempre contro la discriminazione di genere. A riguardo, allora, abbiamo sentito Isabella Rauti, consigliere per le politiche contro la violenza di genere e il femminicidio del ministero dell’Interno, oltre che presidente della onlus internazionale Hands off Women (How) per i diritti delle donne e contro la violenza. «La mia generazione ha salutato con entusiasmo la nomina a direttrice del New York Times di Jill Abramson, prima direttrice donna in oltre un secolo e mezzo di storia del giornale. Esattamente come abbiamo guardato con simpatia anche alla direzione femminile di Le Monde», ci ha detto la Rauti, che poi ha aggiunto: «Non sono ancora del tutto chiari i motivi della rimozione di Jill Abramson, ma un dato è evidente: ci sarà un uomo al posto di una donna, ai vertici del quotidiano. In attesa di conoscere tutte le motivazioni possiamo però giudicare quanto è emerso almeno da alcune testate online, ovvero che la Abramson avrebbe scoperto che il suo stipendio e la sua pensione di direttore, esattamente come lo stipendio precedente di caporedattore, fossero inferiori a quelle riconosciute a un collega maschio. Se quanto appena detto dovesse risultare vero – ha argomentato Isabella Rauti – riprodurrebbe esattamente quanto succede in Italia, e sicuramente in Europa: ovvero una disparità retributiva e salariale tra uomo e donna, a parità di lavoro svolto e a parità di condizioni in termini di titoli professionali. In Italia – ha proseguito la consigliera – la legge vieta la disparità salariale e retributiva di genere, e la busta paga è evidentemente equivalente. Ma esiste una parte di cosiddetto “salario accessorio”, nella quale si annidano delle differenze di salario». Ad esempio? «I premi di produttività, o gli straordinari, o tutte quelle altre voci della parte variabile che generalmente vedono svantaggiate le donne rispetto agli uomini, e certamente non perché le donne lavorino meno o peggio, ma perché scontano la conciliazione dei tempi di lavoro coi tempi di cura e della famiglia. La questione dei differenziali, dunque, è talmente diffusa che l’Unione Europea se ne è occupata in modo esplicito con più di una direttiva di riferimento, ed il primo grido di allarme rispetto alla disparità retributiva e salariale è venuto proprio dagli Stati Uniti già almeno dieci anni fa: evidentemente tutto quanto è stato fatto di positivo sul percorso dell’effettiva parità, non è bastato»…

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