Schiaffo a Obama dal Giappone, visita dei parlamentari al santuario che onora chi morì combattendo per l’Imperatore

22 Apr 2014 18:15 - di Redazione

Oltre 140 parlamentari giapponesi, tra cui Seiichi Eto, consigliere speciale del premier Shinzo Abe, si sono recati al santuario shintoista Yasukuni, nel centro di Tokyo, dove sono onorati i caduti di guerra che morirono combattendo al servizio dell’imperatore, inclusa una decisa di combattenti definiti, dalla fredda terminologia burocratica post-bellica, “criminali di Classe A”, cioè accusati di crimini contro la Pace.
L’iniziativa segue le recenti visite di due ministri del governo Abe e cade all’indomani della contestata offerta dell’albero votivo, il cosiddetto Masakaki, da parte dello stesso premier in occasione della festa primaverile del santuario.
Composta in prevalenza da parlamentari del partito liberaldemocratico al potere, il Jiminto, e da rappresentanti delle forze di opposizione (partito democratico in testa), la missione è destinata a creare un’altra ondata di proteste da parte di Corea del Sud e Cina che vedono lo Yasukuni come il simbolo del passato coloniale e militarista del Giappone imperiale. Ma la visita avrà probabilmente ripercussioni anche sui rapporti con Washington anche se Eto, che ha criticato gli Usa per la condanna espressa sulla visita di Abe al santuario di fine dicembre, ha negato che la mossa collettiva possa avere conseguenze sulle relazioni tra Tokyo e Washington, alla vigilia dell’arrivo del presidente Barack Obama in Giappone, atteso già domani sera.
«Pregare per la pace – ha detto il consigliere nel resoconto dei media locali – non è un atto particolarmente speciale». Un voce critica si è sollevata dal New Komeito, il partner dei Liberaldemocratici, il cui capo, Natsuo Yamaguchi, ha senza mezzi termini osservato che «le visite ripetute dei ministri non sono mai auspicabili» preferendo l’opzione votiva decisa da Abe.
Yamaguchi nei mesi scorsi è andato in Cina negli sforzi per riallacciare un dialogo messo a dura prova dal contenzioso sulla isole Senkaku, nel controllo di Tokyo, ma rivendicate da Pechino.
Durante la festa di primavera dello scorso anno, oltre 160 parlamentari, un quarto circa dei componenti della Dieta nipponica, onorarono i caduti di guerra allo Yasukuni.
La vicenda riaccende i riflettori su quello che fu il contestato Processo di Tokyo condotto dal Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente dal 3 maggio 1946 al 12 novembre 1948 allorquando i Paesi vincitori della seconda guerra mondiale processarono, su input degli Stati Uniti, i vinti utilizzando l’escamotage di un processo internazionale.
A decidere come si dovesse svolgere il processo furono, ovviamente, gli Stati Uniti e, in particolare, il comandante supremo delle forze alleate, generale Douglas MacArthur con un documento che stabilì unilateralmente le procedure processuali e i tipi di crimini sotto i quali potevano ricadere gli imputati: crimini contro la Pace (Classe A), crimini di guerra (Classe B) e crimini contro l’umanità (Classe C).
La farsa processuale venne ammantata di democrazia chiamando i paesi firmatari dell’atto di capitolazione del Giappone a fornire una lista di nomi dai quali poi MacArthur trasse i nominativi dei giudici della Corte e i componenti della Pubblica accusa. Australia, Canada, Cina, Francia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Unione Sovietica e, poi, anche India Britannica e Filippine  entrarono nel processo nelle vesti di giudici e accusatori ognuna con i propri rappresentanti.
Venticinque militari e politici giapponesi furono accusati di aver commesso crimini di Classe A, mentre più di 5.700 cittadini giapponesi furono accusati di crimini di Classe B e C, per lo più per abusi su prigionieri di guerra.
L’ipocrisia di quel processo venne ben resa dal giudice indiano Radhabinod Pal, professore all’Università di Calcutta e giudice dell’Alta Corte della stessa città, il quale sostenne che l’esclusione del colonialismo occidentale e dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki dalla lista dei crimini nonché la presenza di soli giudici delle nazioni vincitrici, rappresentavano il «fallimento del processo a offrire nient’altro se non l’opportunità per i vincitori di vendicarsi dei vinti». Parole durissime che non fecero né caldo né freddo agli Stati Uniti e agli altri Paesi che si erano autonominati giudici e pubblici ministeri e che intendevano procedere comunque.
In particolare ciò che gli Stati Uniti volevano dimostrare era che il Giappone aveva messo in atto una serie di cospirazioni politiche nel periodo pre-bellico allo scopo di causare la seconda guerra sino-giapponese e la guerra del Pacifico con chiari scopi di aggressione ma il giudice indiano fece notare che la cospirazione al fine di intraprendere una guerra di aggressione non era illegale nel 1937.
MacArthur dispose preventivamente nel documento, che spiegava come doveva essere condotto il processo, che «né la posizione ufficiale d’un accusato, né il fatto che un accusato abbia agito conformemente agli ordini del suo governo o di un superiore saranno sufficienti, per se stessi, a sollevare dalla propria responsabilità detto accusato in ogni crimine di cui è imputato, ma queste circostanze possono essere considerate come attenuanti nel verdetto, se il Tribunale deciderà che la giustizia lo esiga». Un’aberrazione giuridica visto che, in sostanza, si stabiliva che veniva processato e accusato anche chi, da militare, si era limitato ad eseguire degli ordini dei suoi superiori, ordini ai quali era obbligato dalle norme militari. Peraltro, come detto, si voleva processare i giapponesi per un reato che, nel 1937, non era considerato reato.
Anche il rappresentante francese, l’avvocato Generale di Bangui e Procuratore Generale del Primo Tribunale Militare di Parigi, Henri Bernard dissentì dalla sentenza così come pareri diversi da quella che era la decisione finale furono espressi apertamente dallo stesso Presidente del Tribunale, l’australiano Sir William Webb, giudice della Corte Suprema d’Australia, dal giudice filippino, colonnello Daniel Jaranilla, Procuratore Generale e membro della Corte Suprema filippina e dal rappresentante dei Paesi Bassi, Bert Roling, Professore di Diritto all’Università di Utrecht.
In definitiva MacArthur aveva cooptato fra i membri della Corte e quelli dell’accusa perlopiù professori di diritto, magistrati e avvocati allo scopo di dare un’immagine democratica e giuridica internazionale al processo di Tokyo ma non si aspettava che i convocati avrebbero pensato con la propria testa e sulla base delle proprie convinzioni giuridiche.
Nonostante il dissenso aperto dei “professori” di diritto si arrivò, alla fine, alle condanne: gli imputati erano 28 ma due morirono nel corso del processo e uno fu prosciolto e rilasciato perché considerato mentalmente insano. Degli altri rimasti, 16 furono condannati al carcere a vita, il ministro degli Esteri Mamoru Shigemitsu a 7 anni, l’ex-ambasciatore in Germania, Shigenori Togo a vent’anni di detenzione (ma poi morì in carcere) e gli altri 8, praticamente tutti militari, condannati a morte mediante fucilazione. MacArthur fece carte false affinché la famiglia reale e l’imperatore Hiroito non venissero coinvolti dal processo. Gli storici hanno speso fiumi di inchiostro su questo aspetto riportando alla luce documenti che dimostrano inequivocabilmente come si mosse, da questo punto di vista, il comandante supremo delle forze alleate pur di tenere fuori dal processo di Tokyo la famiglia reale. Una strategia che ebbe, secondo lo storico americano Herbert Bix, ebbe «un duraturo e profondo impatto distorsivo sulla comprensione della guerra da parte dei giapponesi». La missione di oggi dei 140 parlamentari giapponesi al santuario shintoista Yasukuni forse può aiutare il Giappone a rivedere la sua storia del passato senza l’ombra ingombrante degli Stati Uniti e senza quei terribili sensi di colpa che i vincitori fecero pesare artificiosamente sui vinti.

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