Il “New York Times” rimpiange i tesori che ci ha riconsegnato, ma si dimentica di Axum

22 Apr 2014 19:27 - di Guido Liberati

Dalla Venere di Morgantina al Cratere di Eufronio. Il New York Times fa le pulci a casi celebri di oggetti di antichità rimpatriati da musei americani ai loro paesi di origine. Il quotidiano, che per anni ha seguito da vicino le controversie sul tema dei rimpatri, spesso prendendo le parti dell’Italia e di altre nazioni vittime dei tombaroli, è tornato anni dopo a verificare cosa sia successo alle opere al centro delle polemiche. Il rimedio, in buona sostanza, potrebbe esser stato peggiore del male: questa la conclusione. «Alcuni oggetti restituiti con grande fanfara hanno acquistato maggior significato una volta riportati nei paesi di origine, altre volte però, svanito il trionfalismo, sono caduti vittima di benevolo abbandono, o non sempre sono facilmente raggiungibili», scrive la ex corrispondente da Roma Rachel Donadio. Il viaggio della Donadio tra le “star” dei rimpatri parte da Aidone, dove è esposta dal 2011 la Venere di Morgantina restituita all’Italia dal J.P.Getty Museum: «L’anno scorso 30.767 persone hanno visitato il museo di Aidone e 26 mila Morgantina contro le 400 mila passate attraverso la villa Getty nel 2010, l’ultimo anno della statua in California», nota l’inviata del quotidiano Usa secondo cui uno dei problemi del piccolo museo siciliano è la sua difficile accessibilità: «Celebre per la corruzione, la Sicilia non ha reti di trasporto affidabili. Molte strade locali a volte sono chiuse». Secondo James Cuno, presidente del Getty Trust e autore del saggio Who Owns the Antiquities?, molti episodi di rimpatrio di opere d’arte sono da ricondurre al concetto di “stato nazione” e all’orgoglio nazionale che viene dal recupero di quanto si trova all’estero. Maggior fortuna della Venere di Morgantina avrebbe avuto, quanto a “location”, il cratere di Eufronio, dal 2006 al Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma dopo il lungo braccio di ferro con il Metropolitan che lo aveva acquistato dal 1972 da un mercante d’arte. Il vaso, scavato l’anno prima da tombaroli nella necropoli di Cerveteri, «al Met era stato visto da milioni di visitatori», nota la Donadio, mentre nella capitale si trova “semi-abbandonato” in una teca di vetro, visitato da «qualche scolaresca e pochi turisti» e illustrato da didascalie tradotte in «uno scarso inglese».

Se il criterio fosse sempre lo stesso, con identico parametro il New York Times potrebbe occuparsi anche dell’obelisco di Axum. Riconsegnato il 25 aprile del 2005, dopo essere stato per oltre sessant’anni a Roma, inaugurato in pompa magna dopo tre anni di giacenza in un magazzino etiope. Si potrebbe iniziare a fare il raffronto tra quanti turisti ogni anno vanno in Etiopia e quanti invece avrebbero avuto modo di apprezzarlo e conoscerlo venendo a Roma. Mandiamo miss Donadio a fare un po’ di calcoli?

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