Nel romanzo “Vittoria” gli anni Settanta visti con occhi di ragazza. Perché anche i “fasci” riuscivano a sognare…

1 Mar 2014 16:50 - di Alessandro Moscè

Raramente è successo, in letteratura, che la rivoluzione di chi voleva cambiare il mondo e i movimenti giovanili dopo il Sessantotto, fossero accompagnati da uno sguardo proveniente dalla destra missina e non dalla sinistra ideologica. Il romanzo Vittoria (Giubilei Regnani 2014) di Annalisa Terranova ci offre uno sguardo verso l’altra parte della sponda. Una storia degli anni Settanta, come recita il sottotitolo, scritta dalla giornalista del Secolo d’Italia, che è anche un romanzo di formazione, quel “bildungsroman” di derivazione tedesca attinente all’evoluzione della protagonista dall’infanzia all’età adulta in una sorta di rotocalco sentimentale, denso di episodi, di memorie circostanziate, rapide e indelebili.

Quelli di destra erano i “lebbrosi” della politica italiana, ma il padre di famiglia, rigoroso reazionario, e la madre, discreta ancella della casa, sembrano una coppia serena, risolta. Nelle scuole e nelle università si diffonde la protesta che Annalisa Terranova narra come fosse un’avventura svilente, e al centro figura la scoperta di molte altre cose del tutto estranee alla tensione e alla guerriglia romana. Per esempio l’amore per la Lazio, i pranzi domenicali che si concludevano con i bignè al cioccolato e la glassa rosa, la gita con la 850 color crema verso Venezia, le canzoni di Dalida e Edoardo Vianello, il libro e il film Via col vento. Vittoria incomincia a respirare un clima diverso quando partecipa ai funerali dei fratelli Mattei uccisi nel rogo di Primavalle. Annota l’autrice: “Il padre leggeva che nelle scuole accadeva di tutto: fascisti accerchiati, comunisti in spavalda maggioranza, spalleggiati dai professori compiacenti e complici. E diceva che era colpa del Sessantotto”. Quindi le foto dei volti sfatti del Duce e di Claretta Petacci, ma anche l’osservanza rituale di alcuni gesti, come quando, sul vassoio di alluminio, nel più completo silenzio, il 2 novembre si disponevano le foto dei morti di famiglia e un santino di Mussolini. O la visita a donna Rachele, a Villa Carpena, a questa donna dignitosa, con il fazzoletto in testa alla contadina, piccola e dagli occhi azzurrissimi. E poi l’entrata rabbiosa nell’atmosfera della piazza, i ragazzi che portavano il tricolore senza vergogna, gli anni tesi al liceo autogestito, “l’ostilità rocciosa e persistente” che circonda Vittoria, fino ai dubbi dell’amore e al bisogno di tenerezza oltre la semiclandestinità degli incontri nelle polverose sedi missine.

Infine le pagine conclusive con le bombe messe davanti alla saracinesca di una sezione, tra sconcerto e collera, la morte prima di un compagno e poi di un camerata, l’incontro con un distaccato Almirante e il tentativo di riannodare un filo intricato. Rimangono le domande esistenziali a fare da sfondo scenico: quella, era davvero la guerra? “Uno finisce abbattuto, a terra, uno del gruppo a caso, uno che poche ore fa rideva e si faceva le sigarette con le cartine”. Tutto si cancella con la morte di Aldo Moro, in uno stato di eccezione e in una consapevolezza maggiore dell’Italia intera: “Centinaia di persone pallide, sconvolte, si guardavano tra loro come se fossero in attesa dell’apocalisse”. Anni pazzi, anni di promesse, anni di entusiasmo e di morte. Cosa rimane? La nostalgia dell’età del sogno, ci sembra, dove tutto è in continua metamorfosi. Non l’attivismo e neppure i tragici epiloghi. Non l’appartenenza, ma una sola panchina, dopo trent’anni, “dove dare tempo a quel peso di sciogliersi”.

*Alessandro Moscè, scrittore, è autore del libro “Il talento della malattia” da cui è stato tratto un film che uscirà nelle sale quest’anno

 

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