La nostra economia a picco, aspettando la “scossa” promessa da Renzi

4 Mar 2014 15:23 - di Silvano Moffa

Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, continua a dire che tutto è sotto controllo, che i bot non saranno tassati, che tra Irap e Irpef si sta studiando una formula di bilanciamento per capire dove è meglio intervenire per ridurre il livello della tassazione, che il Jobs Act è pronto da giorni, ma che bisognerà attendere le decisioni del governo. Insomma, ci pare di capire che ancora non c’è una idea compiuta di quali politiche attivare per far imboccare al Paese la via di un ciclo economico positivo.

Eppure Matteo Renzi aveva promesso  fuochi di artificio nel giro di poche settimane. Soprattutto, dopo aver twittato indignazione per lo sconcerto procurato dall’ennesimo picco statistico toccato dalla disoccupazione giovanile. Nel frattempo, con esasperante puntualità, è arrivato l’aggravio della tassazione sulla seconda casa e sui capannoni industriali. In più giungono  i dati negativi a consuntivo  2013: dati che certificano con chiarezza lo stato di depressione in cui versano le famiglie. Si registrano effetti devastanti sui consumi. Crolla la spesa alimentare (meno 3,1%). Va peggio per l’acquisto di farmaci, le visite mediche e gli esami clinici. Siamo ad un meno 5,7%. Questo significa che ormai la capacità di spesa delle famiglie si è fortemente contratta. In un anno, le famiglie italiane hanno speso 21,6 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. Cifre da capogiro. Cifre che rivelano sofferenza, disagio, disperazione. Mario Draghi snocciola i dati della Bce. Il Pil italiano è precipitato ai livelli  di tredici anni fa. E’ vero che la “cura” Monti, prima,e la “cura” Letta, successivamente, hanno mantenuto il rapporto deficit/Pil in linea con la fatidica soglia del 3% imposta dall’Europa. Ma  il rapporto in sé, nella sua struttura, è peggiorato. Ora siamo al 132,6 per cento, rispetto al 127 dell’anno precedente. L’avanzo primario, ossia la differenza fra la spesa pubblica e le entrate tributarie ed extratributarie al netto degli interessi, è sceso a 34,7 miliardi, pari al 2,2% del Pil, lo 0,3 in meno a confronto con l’anno precedente. Dei livelli alti della disoccupazione, in particolare giovanile, abbiamo già detto. E’ evidente che ci sono ancora troppi squilibri per poter immaginare una ripresa rapida e sicura. Se poi – e questo è il punto dolente della fase attuale – la missione renziana si risolve in un profluvio di parole, in generiche enunciazioni di principio e in una ondivaga ricerca di vie di uscita dalla crisi , allora c’ è davvero poco da sperare per le sorti del Paese. Non vogliamo essere profeti di malaugurio, per carità. Qui, però, c’è l’Italia da salvare; ci sono famiglie, imprese, giovani che chiedono risposte e non ce la fanno più ad ascoltare chiacchiere inconsistenti. Il disagio  è enorme. Quando in una famiglia si lesina sui generi alimentari e le spese sanitarie, vuol dire che siamo al tracollo sociale, che ormai il vaso è colmo, e la pazienza ai limiti. Quando le imprese chiudono, e queste chiusure diventano inarrestabili; quando i marchi del Made in Italy, che ci hanno resi famosi nel mondo, finiscono in mani cinesi e coreane, oppure  in quelle di multinazionali tedesche  e francesi e statunitensi  , è  il sogno di riscatto che viene seppellito definitivamente dalle logiche del mercato.

Alla disperazione subentra la rassegnazione, che è il più grave dei malanni. La rassegnazione atrofizza articolazioni e cervello. Ci vorrebbe una scossa, insomma. Quel che Renzi si era affannato a promettere. Una scossa che ancora non si vede. Pensate un po’: il presidente del Consiglio ha gridato ai quattro venti che ci sono 10 miliardi di incentivi da eliminare per ridurre l’Irap alle imprese e intervenire sul cuneo fiscale; ebbene, in quei dieci miliardi , fa notare Confindustria,  la quota maggiore è destinata al trasporto pubblico locale e al contratto di servizio delle ferrovie. Sono somme che servono per assicurare la mobilità collettiva. Un interesse pubblico generale che sarebbe assurdo non garantire. Ove lo si facesse , i danni per i cittadini sarebbero enormi . Quanto alle norme sul lavoro, va detto senza inutili sofismi che sarebbe meglio, molto meglio eliminare la riforma Fornero, restituendo flessibilità in entrata e diminuendo i costi per le imprese. Fermo restando che non si creano nuovi posti agendo unicamente sulla leva regolatrice del mercato del lavoro. Chi lo pensa, vive di illusioni. La verità è che ci vuole più formazione. Occorrono agenzie del collocamento che funzionino. Quelle pubbliche, salvo rare eccezioni, sono un disastro. Ci vogliono maggiore libertà di contrattazione e meno rigidità nell’uscita, quando le cose non vanno bene per l’impresa, ed è del tutto evidente che la logica di salvare tutti i dipendenti porta  soltanto  a non salvare nè azienda nè manodopera. Ci vuole, innanzitutto, una idea di sviluppo su cui concentrare le risorse. Senza un progetto industriale fortemente innovativo, e ben calibrato sulle qualità che ancora offrono sostanza alle nostre produzioni di  eccellenza, non si alimenta la ripresa. Non c’è niente di peggio, nell’attuale situazione, parcellizzare le risorse, frastagliarle e frantumarle in mille rivoli. Una tale pratica, a lungo andare, risulterebbe mortale.

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