Rampelli: «Il Giorno del ricordo è un risultato portato a casa, ma sulla memoria condivisa resta molto da fare»

14 Feb 2014 18:21 - di Redattore 89

Ormai un quindicennio fa, Fabio Rampelli, oggi deputato di Fratelli d’Italia e allora capogruppo di An alla Regione Lazio, propose una commissione di esperti sui manuali di storia. L’iniziativa fu accolta dalle «anime belle dell’intellighenzia rossa», per dirla con le parole di Rampelli, come un tentativo di controllo politico sui libri scolastici. Era, in realtà, una richiesta di pluralismo, che si inseriva nella battaglia per consentire a famiglie e studenti la scelta dei libri su cui studiare, prevedendo la fine del testo obbligatorio. C’era, all’orizzonte, un altro obiettivo alto: il recupero alla memoria collettiva delle “pagine strappate” della nostra storia nazionale. Pagine che comprendevano anche la vicenda delle foibe e dell’esodo.

In occasione del Giorno del Ricordo del 2011 lei presentò alla Camera una mozione contro il libro di resto obbligatorio. Siamo ancora al punto zero?

No, non siamo al punto zero. Qualche manuale di storia ha finalmente rivisto la definizione di foibe su cui, ricordo, se ne sono lette di tutti i colori, dalla semplice definizione geologica di “dolina carsica” fino ad assurdità come l’attribuzione degli infoibamenti degli italiani ad un’azione dei nazisti. Si trattava di mistificazioni che adesso sono state corrette. Ma molto resta da fare.

Sulla divulgazione della storia delle foibe e dell’esodo o sui libri di testo?

Su entrambi, ma il punto è un altro, è il problema complessivo della memoria condivisa. L’istituzione del 10 febbraio è una conquista, la legge l’abbiamo portata a casa, ma non ci possiamo dire soddisfatti. Sui libri di testo, come scrivevo in quella famosa mozione, resta il problema della lettura critica della storia. Non bisogna avere paura della verità. La questione delle pagine della nostra storia distorte o completamente omesse non riguarda solo le foibe. Nessun libro parla del triangolo rosso e degli eccidi dei partigiani comunisti, nella stragrande maggior parte dei casi non viene fatta alcuna menzione delle decine di migliaia di soldati morti nella steppa sovietica, ad El Alamein, in Gracia, in Albania, Etiopia. È scandaloso che queste persone – che servirono la propria patria non da fascisti, ma da italiani, in un esercito regolare – siano state cancellate. Noi siamo in debito con loro, dovremmo celebrarli ogni anno e ricordarne l’eroismo. Non si può dimenticare qualcuno caduto per il proprio Paese solo perché in quegli anni c’era un regime e quindi automaticamente tutti quelli che hanno vestito una divisa vengono collocati ideologicamente a servizio di quel regime. Non funziona così e chi ha fatto funzionare così le cose ha commesso un errore gravissimo, perché ha contribuito a demolire l’amor di patria, il senso di appartenenza a una comunità nazionale.

Ci sono stati anni in cui sembrava che questo sentimento fosse stato riscoperto. Penso agli anni di Ciampi, alla reazione corale alla strage di Nassiriya. Secondo lei, c’è stato un arretramento?

Non credo ci sia stato un arretramento, credo che si facciano spot propagandistici a seconda della stagione. Il punto è sempre che continua a mancare – da parte dell’elite intellettuale, degli uomini di cultura, della politica, delle istituzioni – la volontà di trovare quel famoso filo rosso della memoria condivisa intorno al quale unire partigiani e repubblichini, volontari partiti in guerra e “traditori” che hanno seguito Badoglio. L’epoca delle contrapposizioni a un certo punto deve cessare e deve restare l’atto estremo di generosità di chiunque abbia combattuto per l’Italia. Se questo fosse stato chiaro, non avremmo celebrato solo per un anno il 17 marzo e avremmo anche noi un giorno della rimembranza per ricordare tutti i caduti che hanno combattuto per amore della patria, come c’è in Inghilterra. Se questo fosse stato chiaro, non avremmo assistito a episodi mortificanti in occasione di questo 10 febbraio e parlo prima di tutto di episodi di carattere istituzionale.

Lei ha scritto al presidente della Vigilanza Rai sulla messa in onda di Magazzino 18, lo spettacolo di Simone Cristicchi, in seconda serata…

Sì, e ho chiesto la convocazione del direttore generale e la riproposizione in prima serata, in modo che tutti, a partire dagli studenti, siano messi in condizione di vederlo. Ma non c’è solo questo. Al Gr è stata intervistata la presidente dell’Anpi di Trieste, che è come se il 25 aprile avessero intervistato il presidente dell’Unione combattenti e reduci della Rsi: non è il genere di approfondimento adeguato al momento. Oltre tutto, ha proposto una tesi così minimizzante da essere quasi negazionista. Il giorno dopo ci sono tornati, ma ormai il danno era stato fatto, c’era stata la mortificazione della comunità giuliano dalmata e istriana e di tutti gli italiani. Infine, la vicenda della circolare per le scuole: arrivata a presidi e insegnanti nel giorno stesso in cui si sarebbero dovuti svolgere gli approfondimenti, il 10 febbraio. Tranne chi aveva già una sua sensibilità, nessuno ha potuto approfittare della circostanza per lezioni alternative o integrative. Ma, al di là della ricostruzione storica, quello che sfugge è che questa è una comunità viva e vegeta e nessuno se la fila. Non c’è solo il 10 febbraio: non è stata interpellata quando la Croazia è entrata nell’Ue; non è stata al centro di trattative bilaterali per avere un risarcimento; nessuno ha chiesto scusa per il fatto che 350mila nostri esuli arrivarono sulla Penisola e furono trattati come appestati, per drammi come la morte di freddo di bambini di un anno nei campi profughi… Oggi abbiamo il risultato del 10 febbraio ma, ripeto, c’è ancora molto da fare. È assurdo che i cittadini italiani conoscano meglio la data delle rivoluzione di ottobre che la storia del loro popolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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