Renzi parla a Letta perché Napolitano intenda. La vita del governo è un affare tutto interno al Pd

27 Dic 2013 16:44 - di Mario Landolfi

È difficile dar torto ad Enrico Letta quando lamenta la scarsa “pulizia” nell’attività legislativa. Peccato, però, che se ne sia accorto solo dopo l’intervento del Colle che ha costretto il suo governo a ritirare il cosiddetto “salva Roma” trasfigurato dal passaggio parlamentare con il suo carico di emendamenti ammontanti a ben 10 articoli e 90 commi. Manco a dirlo, il premier ha cercato di fare di necessità virtù annunciando prontamente riforme immediate in tal senso. Ma è solo una toppa nel tentativo di coprire il buco provocato dallo strappo di Napolitano, assolutamente (e giustamente) indisponibile ad avallare decreti che nel corso del passaggio di conversione alle Camere si trasformano in autentici caravanserragli.

La questione è solo apparentemente tecnica e non investe solo la qualità del nostro procedimento legislativo. In realtà è politica e rinvia allo scontro, sempre più scoperto, tra Renzi ed il premier, che proprio sul “salva Roma” ha registrato un ulteriore passaggio. Il provvedimento poi ritirato, infatti, Letta lo aveva difeso con le unghie e con i denti dal fuoco amico aperto dalla segreteria del Pd, fino ad arrivare a minacciare il ricorso alla questione di fiducia. Non si è arrivati a tanto solo per l’altolà del Quirinale. La manche, dunque, se l’aggiudica Renzi che ora però vuole capire per quale motivo i rilievi al governo non valgono se mossi dal partito mentre nemmeno si discutono se invece provengono dal Colle. Il che equivale ad un salto di qualità nella sua strategia. Nel mirino di Renzi è ora il triangolo Letta-Alfano-Napolitano. Le sue perplessità in merito danno corpo agli umori più profondi e viscerali di gran parte del partito. A denti stretti le cominciano a condividerle anche i settori interni più distanti dal segretario.

É una situazione a dir poco scivolosa che rischia di risucchiare la stessa presidenza della Repubblica. Di solito, governo e maggioranza hanno il dovere costituzionale di “proteggere la Corona”, cioè la suprema magistratura dello Stato, dallo scontro tra e nei partiti. In questa fase sta accadendo l’esatto contrario. Non c’entra l’impeachement minacciato da una forza di opposizione come il M5S o i retropensieri in merito da parte dei berlusconiani, ormai anch’essi fuori dalla maggioranza. C’entra, invece, – eccome! – il Pd, che esprime il premier e che quindi  ne avalla politicamente gli atti. Se è questo partito a storcere il naso sull’attivismo del Colle, vuol dire che la musica è cambiata. Ed è così: detta in termini brutali, Renzi è convinto di essere arrivato al vertice del Pd non in sostituzione del “reggente” Epifani bensì del “supplente” Napolitano. La sua elezione a segretario (almeno questo sembra essere il suo ragionamento) rappresenta l’unico elemento di legittimazione popolare, per quanto numericamente limitata e politicamente parziale, a sostegno di un governo nato negli alambicchi del Quirinale e per di più azzoppato dalla defezione di Forza Italia. Se dunque una tutela dovrà esserci sulla vita e sull’attività dell’esecutivo, non potrà che essere affidata al partito di maggioranza relativa e non al presidente della Repubblica che, al contrario, è super partes rispetto alla contesa politica.

È dunque di tutta evidenza che l’obiettivo prioritario di Renzi è proprio Napolitano, almeno fino a quando questi continuerà ad apparire ai suoi occhi come l’ostacolo ad una diversa composizione del “triangolo” decisionale di cui sopra nonché alla possibilità di votare nel 2014 per le politiche. Va da sé che il capo dello Stato nulla può e nulla deve dire o fare per alleviare l’ansia da prestazione del giovane leader. Non conviene tuttavia a nessuno, Napolitano compreso, trasmettere l’idea che l’attuale governo debba proseguire a tutti i costi e a dispetto di tutti. Parlamento compreso.

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