Da oltre un ventennio trasciniamo avanti un capitalismo all’italiana zeppo di scandali

27 Dic 2013 16:44 - di Silvano Moffa

I dati  forniti dal Centro studi di Confindustria sul cosiddetto “capitalismo pubblico” meritano interesse e suscitano più di  una riflessione.  Non è un caso che la loro diffusione coincida con l’approvazione della legge di stabilità, largamente deludente, e il varo del cosiddetto Milleproroghe,  ossia con un provvedimento omnibus che cerca di porre riparo agli errori contenuti nella manovra finanziaria di fine anno.  Se fossimo in condizioni normali, con una politica degna di questo nome e capace di incidere dove bisogna intervenire, senza ricorrere ai soliti metodi dell’inasprimento fiscale e dell’aumento delle accise sulla benzina per fare cassa, quel che oggi ci propina il rapporto di Confindustria sarebbe stato considerato utile per imprimere un cambiamento di marcia nelle politiche finanziarie e nelle scelte riformatrici del governo. Al contrario, questo studio rischia di finire nel dimenticatoio, più o meno come è capitato con una analoga ricerca del 2012.  In base ai rilievi forniti lo scorso anno dalla banca dati del Ministero per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione, le partecipazioni possedute da amministrazioni pubbliche erano 39.997 , distribuite in 7.712 organismi esterni.  Il costo per mantenerle è stato di 22,7 miliardi , pari all’1,4% del Pil. Numeri enormi , che “il Paese non può permettersi”, si leggeva nel Rapporto. Bene, a distanza di un anno la situazione non è cambiata. Anzi, è peggiorata. A leggere i bilancio di queste società, il loro rendiconto economico-finanziario e ,soprattutto, la loro resa , c’è da restare allibiti. Oltre la metà di detti organismi non svolge alcuna  attività di interesse generale. Insomma, ci sono oltre 11 miliardi di euro che si disperdono nei rivoli sconosciuti di un fiume sotterraneo, alimentando verosimilmente clientele, apparati,  burocrazie,  senza fornire servizi utili alla collettività.  Un terzo di questo mastodontico apparato è in perdita. Un buco  che,nel solo 2012, è costato alla pubblica amministrazione circa 4 miliardi per  ripianarne i bilanci ed evitarne il fallimento. Secondo Confindustria – e questo è un rilievo importante –  il mondo delle partecipazioni statali, oltre ad essere costoso ( e improduttivo), insiste prevalentemente su enti ed organismi locali costituiti per aggirare i vincoli di finanza pubblica e generare consenso.  In parole povere, si tratta di un complesso di sovrastrutture societarie messe in piedi ad hoc  per garantire alla politica di mantenere un piede nell’economia, in barba alle norme e ai ripetuti richiami europei. Più esattamente, si tratta di quel capitalismo municipale che, nel tempo, pur cambiando pelle, è riuscito a sopravvivere a ripetuti tentativi di smantellamento.  Molti governi ci hanno provato, per la verità. Ma  i tentativi sono sempre andati a vuoto. Anche nell’ultima legge di stabilità, si fa accenno alle partecipate pubbliche.  C’è una norma che prevede la chiusura obbligatoria delle aziende che per quattro anni di seguito hanno registrato bilanci in perdita e  impone il licenziamento dei dirigenti dopo due anni di “rosso”.  Guarda caso, però, è scomparsa la disposizione che prevedeva la vendita obbligatoria delle quote di  partecipazioni da parte degli enti locali. Un compromesso che serve a poco.  Certo, non tutto è marcio nel  settore delle aziende partecipate dal pubblico.  Ci sono enti che funzionano e forniscono servizi alla comunità che sarebbe dannoso eliminare. Ma ce ne sono tanti, la gran parte, che andrebbero messi sul mercato e affidati ai privati. Ne guadagnerebbe lo Stato , nelle sue articolazioni regionali e comunali, e ne beneficerebbero i cittadini. Ci  vorrebbe un piano di razionalizzazione che fissasse criteri e metodi di cessione, finalmente chiari e definitivi, con tempi di alienazione certi. Andrebbe adottato un piano che fotografasse la situazione nel suo complesso e ci vorrebbe un governo che fosse in grado di fornire direttive precise. Questa sorta di capitalismo nostrano, fondato sulle partecipazioni  municipali,  lo trasciniamo avanti da oltre un ventennio tra scandali, corruttele, pessime gestioni affidate a manager  poco competenti a a uno stuolo di politici dal profilo assai scarso. È soltanto la pallida copia del sistema delle partecipazioni pubbliche che alimentò il sistema economico italiano nell’immediato dopoguerra , fino agli albori della cosiddetta seconda Repubblica. Non ha niente a  vedere, per intenderci, con enti  pubblici economici come l’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, nato nel 1933 e posto in liquidazione nel 2000. Ossia quando il sistema economico “misto”, erede delle trasformazioni degli anni Trenta, fu sostituito da una totale apertura dei mercati, dalla globalizzazione. Il compianto Massimo Pini, in un bel saggio dedicato all’Iri,  ricorda come gli storici, in occasione della   liquidazione  dell’Istituto ,hanno messo a fuoco la  funzione che ebbe quell’ente  nel quadro dello Stato motore dello sviluppo economico, secondo l’insegnamento di Francesco Saverio Nitti,ripreso poi da Alberto Beneduce con Mussolini. Nel dopoguerra, fu poi la dottrina sociale della Chiesa a mantenere viva la concezione della presenza dello Stato nell’economia. Non a caso, il democristiano Aldo Fascetti, presidente dell’Iri dal 1955 al 1960, in una conferenza dedicata all’Istituto, citò il Trattato di economia sociale di Giuseppe Toniolo: “L’ingerenza dello Stato può essere reclamata, quivi per addestrare gli individui all’azione, e colà per impedire che questa soverchi o tragga in rovina la cosa pubblica”. Niente di analogo a quel che oggi abbiamo dinanzi. Erano altri tempi.

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