Nel Pd “sconfittista” fondare una leadership è un gioco da ragazzi, cioè da Renzi

28 Ott 2013 12:59 - di Mario Landolfi

A nascere ci vuole fortuna. Si può finire dentro una famiglia agiata o in una povera. È il caso a decidere. In politica accade più o meno la stessa cosa sebbene ad un partito si aderisca e non ci si nasca. Prendete Alfano e Renzi, entrambi giovani, con ruoli e visibilità da protagonisti affermati ancorché lanciatissimi (almeno il Rottamatore) verso nuove ed affascinanti avventure. Il primo, però, è nato in una famiglia politica ricca di vittorie dove il culto del padre è praticamente assoluto mentre l’altro è diventato una sorta di prodigio in una casa affollata di una nomenclatura di parenti-serpenti, ognuno con un proprio capotribù e relativi sottopancia. In comune, salvo sorprese, hanno persino una data, quella dell’8 dicembre quando il Consiglio Nazionale del Pdl da un lato ed il popolo delle primarie del Pd dall’altro dovranno assumere decisioni particolarmente delicate.
Chi dei due è sta meglio? A giudicare dagli incarichi, certamente Alfano: vicepremier, ministro dell’Interno e soprattutto segretario politico nazionale del suo partito. In quest’ultima veste può molto ma non è il decisore di ultima istanza, che resta il “padre”. In più, tale ruolo, da una parte gli attira i rancori della nomenclatura che vorrebbe che fosse solo questi ad esercitare il comando, e, dall’altra, gli procura lo strattonamento di quelli che lo istigano al “parricidio” per completare il processo di affrancamento dal leader. Progetto sul quale Alfano sembrava d’accordo. Ora, però, esita. Sa che dispone solo di forza interna, buona per le manovre di Palazzo ma inutilizzabile quando arriverà il momento di presentarsi agli elettori. Per Renzi è diverso. La vecchia guardia che fino a ieri gli ha sbarrato il passo si è divisa e molti sono addirittura saliti sul suo carro. La sua forza, esterna e diffusa, sta costringendo i vecchi cacicchi a consegnargli lo scettro. La brace delle rivalità arde ancora sotto la cenere ma è prevedibile che le recalcitranti tribù si consegneranno pressoché compatte al nuovo capo.
Senza dubbio, il sindaco-leader possiede degli atout che il suo dirimpettaio del Pdl gli invidia. É la “fortuna” di chi nasce in una famiglia povera o – come nel caso del Pd – in un ambiente passato di sconfitta in sconfitta e senza più orgoglio né motivazioni. Qui è più facile fondare un nuovo credo ed un nuovo ordine, chiamare a raccolta i più giovani e lanciarli verso mai raggiunti traguardi. Al suo cospetto, Alfano – costretto al proibitivo confronto con un “padre” carismatico e vincente – è un semplice gerente. Senza scomodare la distinzione tra “funzionario” e “proprietario” tracciata dalla sociologia politica, è evidente che la possibilità di esercitare una leadership sul modello di tipo renziano gli è del tutto preclusa. Una circostanza, questa, che più di ogni altra disegna una profonda linea di demarcazione rispetto al significato che ognuno dei due attribuisce alla scadenza di dicembre. Per Renzi sarà come passare cinto di alloro sotto un arco di trionfo tra due ali di folla plaudente. Alfano invece dovrà scegliere se ripresentarsi, cinto di cilicio, al cospetto del padre o se ergersi sulla prua del suo piccolo vascello, mollare gli ormeggi e scrutare l’orizzonte in cerca di un nuovo inizio. In favore della prima opzione militano le ragioni complessive del Pdl. La seconda è la rotta rischiosa che intraprende un capo. Sarà dunque l’8 dicembre a raccontarci se in futuro la politica italiana sarà sfida tra due giovani leader o, più semplicemente, che mentre a sinistra è nata qualcosa, a destra è morto (politicamente) qualcuno.

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