Sulla decadenza del Cavaliere il Pdl ha giocato a perdere

11 Set 2013 19:54 - di Mario Landolfi

Resisterò ancora alla tentazione di fondare un comitato per il ritorno alla Prima Repubblica, ma ogni ora che passa la voglia si fa più forte.
Da oltre un mese l’Italia è seduta sul vulcano della decadenza di Berlusconi da senatore, questione decisiva per la politica nazionale e per le sorti del governo. Un vero affare di Stato, trattato tuttavia alla stregua di una personalissima ancorché drammatica vicenda come se il Cavaliere non fosse da venti anni il protagonista assoluto del proscenio istituzionale italiano. I risultati di tanta insipienza sono quelli che vediamo: Pd e Pdl si beccano come polli in un combattimento senza senso il cui premio consiste infatti in una manciata di tempo per di più inutilizzabile dal momento che ad ottobre è destinata comunque a scattare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici a carico del Cavaliere. Peggio ancora mi sentirei se la disfida in atto servisse all’uno a bruciare le dita dell’altro con il cerino accesso della paternità della caduta di Letta. Ma a leggere i reciproci accorati appelli alla responsabilità o a registrare le repentine retromarce puntualmente seguite alle minacciose fughe in avanti, non sembra essere il nostro caso.
In realtà, come sempre capita, quando si pretende di cacciare la politica dalle cose della politica, la politica ritorna. E si vendica. La partita della decadenza di Berlusconi è stata giocata che peggio non si poteva, soprattutto dal Pdl che invece di puntare sull’esigenza di tenere coesa la coalizione intestandosi il tema della stabilità di governo, ha derubricato l’effetto della condanna ad un questione personale risarcibile con una mandrakata che garantisse l’agibilità politica del suo leader. Esattamente quel che il Pd non poteva neanche sentire se non voleva veder prosciugato dalla concorrenza di Grillo e Vendola il proprio bacino elettorale. Tanto è vero che Epifani ha fatto subito intendere quale aria tirasse dalle sue parti leggendo un comunicato durissimo in perfetto stile da tribunale del popolo.
Nella vituperatissima Prima Repubblica, a quel punto, il comandante in capo del partito sotto attacco avrebbe pubblicamente chiesto al premier l’immediata convocazione di un vertice di maggioranza per verificare la possibilità di una posizione comune senza la quale controdedurne l’assenza di vincoli di coalizione e quindi la fine del governo sarebbe stato non solo lecito ma doveroso. La posizione comune non poteva che consistere nel ricorso della Giunta per le Elezioni del Senato alla Consulta affinché si pronunciasse sui dubbi profili di costituzionalità della legge Severino.
La comprensibile paura di perdere il proprio capo da un lato e l’inconfessabile tentazione di disfarsi del Grande Nemico dall’altro hanno invece trasformato un evento della politica in un esercizio gladiatorio di cui ormai si fatica a comprendere ragioni e finalità. Ed un pesante contributo lo ha fornito anche l’atteggiamento francamente sconcertante dello stesso Letta che forse solo nelle ultime ore ha realizzato il pericolo mortale che correva (e corre) il suo governo. Solo il pronto soccorso del Quirinale è riuscito a trasformarne l’ultimo respiro in una boccata d’ossigeno.
Vero è che siamo assistiti dallo Stellone ma è difficile che si possa continuare così. In nessuna parte del mondo esiste un sistema istituzionale capace di sopravvivere a tanta improvvisazione. Se è questo il nuovo che avanza aridatece l’avanzo del vecchio.

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