India, il “branco” condannato alla pena capitale per lo stupro e la morte della studentessa

13 Set 2013 12:35 - di Bianca Conte

La sentenza, quella umana e morale, era arrivata subito. Il verdetto di colpevolezza, qualche giorno fa. La condanna, oggi: un tribunale speciale indiano a New Delhi ha decretato la pena di morte per i quattro imputati dello stupro di gruppo perpetrato in dicembre ai danni di una ragazza appena ventitreenne, ribattezzata dai media “Nirbhaya” (Colei che non ha paura), una studentessa del settore paramedico, poi deceduta in un ospedale di Singapore per la gravità delle ferite riportate. Tutti gli assalitori erano stati identificati dal fidanzato della ragazza che era con lei nel momento della spietata aggressione, e sono stati riconosciuti nelle immagini registrate da camere di sorveglianza vicino il bus. I quattro condannati a morte per impiccagione sono Mukesh Singh, 26 anni, Vinay Sharma, 20 anni, Pawan Gupta, 19 anni, e Akshay Thakur, 28 anni. Si tratta del primo caso di condanna capitale per reati sessuali inflitta dopo l’inasprimento delle pene decisa in seguito all’ondata di brutali violenze nel paese. Un quinto imputato, minorenne al momento dei fatti, è sato condannato il 31 agosto a tre anni di riformatorio, pena massima prevista dal codice penale indiano per i minori di 18 anni. In marzo, infine, Ram Singh di 33 anni, autista dell’autobus su cui fu commesso lo stupro di gruppo, e considerato l’ideatore dell’assalto, si è apparentemente suicidato nella sua cella del carcere. Il terribile episodio di violenza su cui i giudici hanno espresso il verdetto comminando in tempi rapidissimi per i tribunali indiani (in cui i processi durano anche oltre dieci anni) la pena più alta, risale al 16 dicembre del 2012, ed è iniziato proprio nei pressi del palazzo di giustizia che oggi ha espresso il severo verdetto di condanna sulla tragica vicenda. Quel giorno maledetto Nirbhaya, dopo essere andata al cinema in un quartiere a sud di New Delhi, accettò di salire con il fidanzato su un autobus privato per tornare a casa. A bordo dell’automezzo si trovavano i sei imputati che, dopo aver immobilizzato e malmenato l’uomo, si abbandonarono in modo selvaggio ad inenarrabili abusi nei confronti della giovane, utilizzando fra l’altro anche una sbarra di ferro. I due furono poi abbandonati seminudi al margine di una strada. L’epilogo è la cronaca tristemente nota dell’agonia della studentessa, fino alla morte. Un sacrificio che ha valicato il muro di omertà esistente in India sul tema della violenza sessuale contro le donne, comprese bambine in tenera età, sensibilizzando la società indiana sull’annoso tema, amplificato dall’attenzione internazionale. Ma si è dovuti arrivare all’enesima, brutale, aggressione del branco. Alla morte della giovane vittima di turno per vedere condannare, rapidamente e severamente, i quattro assalitori. Il caso giuridico si chiude oggi, ma gli echi di quella efferata vicenda, assurta a simbolo della drammaticità della condizione femminile in quell’area del mondo, risuonano di un’altra infinità di casi, magari neppure arrivati sui banchi di un tribunale. Casi colpevolmente “trascurati”, dalla legge e dall’opinione pubblica, nella quotidianità violenta che dalle zone rurali alle grandi città del gigante asiatico colpisce indiscriminatamente giovani donne e bambine indifese. Vittime di una cultura della sopraffazione maschile che ha troppo a lungo relegato nel silenzio abusi fisici e psicologici, contro cui oggi è arrivata la prima sentenza esemplare.

 

 

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