I sondaggi “stendono” Obama: minimo storico di gradimento a causa di Siria e Datagate

26 Set 2013 16:50 - di Giovanni Trotta

È lontano il novembre 2008, quando Barack Obama fu eletto trionfalmente presidente degli Stati Uniti. Così come è lontano il 2009, quando addirittura ricevette il Premio Nobel per la Pace, sia pure “di incoraggiamento”, come si disse allora. Il fatto è che il gradimento del presidente Obama da parte degli americani è ai minimi da due anni: lo rivela un sondaggio di New York Times e Cbs News. Secondo la proiezione, il 49% degli intervistati non apprezza l’operato del presidente, mentre il 43% lo approva. Solo il 30%, tuttavia, ritiene che il presidente si occupi «molto» delle esigenze e dei problemi dei cittadini Usa, cifra che è diminuita in modo significativo rispetto al suo primo mandato alla Casa Bianca. Gli americani – sempre secondo il sondaggio – rimangono in particolare scettici sulla riforma sanitaria del presidente tanto che solo uno su cinque crede di avere benefici grazie all’Obamacare. Soprattutto, sono scontenti dell’economia ancora stagnante. In generale comunque, Obama ha perso consensi su tutta la linea, anche per quanto riguarda le scelte di politica estera, su Siria e Iran. Per due terzi dei cittadini, il Paese è sulla strada sbagliata, e quasi 9 persone su 10 sono frustrate dalla prospettiva del cosiddetto shutdown, l’arresto dell’attivita’ del governo. Eppure, si parla sempre di politica estera, solo all’inizio di giugno il 40 per cento degli americani erano critici verso Barack, e solo poche settimane più tardi erano diventati oltre la metà, specificamente per l’atteggiamento verso la Siria. Oggi, solo il 39 per cento approvano il comportamento della Casa Bianca nei confronti del nemico principale Iran, frutto forse dell’intervento aperturista del neo-presidente Rohani al Palazzo di Vetro. Ben il 65 per cento poi spera che la diplomazia abbia la meglio sulle armi, per la questione siriana, cosa che forse ha spinto Obama e un piccolo dietrofront dalle posizioni belligeranti che stava assumendo contro Damasco, accusata senza prove di aver utilizzato armi chimiche. Ma forse il colpo più duro al presidente lo ha sferrato il caso Datagate, anche se ben gestito dagli sherpa della Casa Bianca, che hanno convinto gli americani che in cambio della sicurezza si può ben rinunciare a un po’ di privacy. Ma il Datagate è tornato di attualità con il durissimo attacco portato agli Stati Uniti da un Paese tradizionalmente amico come il Brasile: proprio l’altro giorno la presidente brasiliana Dilma Rousseff, democratica come Obama, ha accusato gli Usa dal podio dell’assemblea generale di aver violato il diritto internazionale con l’indiscriminata raccolta di dati personali su cittadini, imprese, diplomatici del suo Paese e perfino su lei stessa. «È stato un affronto alla sovranità del Brasile e alle regole che governano i rapporti amichevoli tra nazioni, una grave violazione dei diritti umani, un crimine totalmente inaccettabile», aveva infatti detto parlando subito prima del presidente Barack Obama, e a una settimana dal rinvio della sua visita di Stato a Washington. La crisi economica ha certamente fatto la sua parte per rendere impopolare Obama, che pochi giorni fa è stato costretto a nominare Jeffrey Zients come suo consigliere economico, dopo che però – guarda un po’ – Gene Sperling, numero uno del National Economic Council, che ha dovuto lasciare l’incarico il prossimo 1° gennaio perché finito nel mirino delle critiche con l’e-mail minacciosa inviata al giornalista Bob Woodward, che lo informava che stava per pubblicare un articolo contro il presidente. Stando così le cose, nel 206 i repubblicani avranno le loro carte da giocare. Obama si è defilato dal rispondere a una domanda su Biden o Clinton per la prossima corsa alla Casa Bianca, sostenendo che è troppo presto per parlarne. Da parte sua, il guru della comunicazione di Obama Michael Slaby, ha ammonito che «se vogliamo riconquistare la Casa Bianca nel 2016, non dobbiamo occuparci di ideologia, ma seguire il percorso che guarda alle reali esigenze degli americani e dei popoli di tutto il mondo».

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