Da Cernobbio stop al federalismo. La nazione torna di moda. E la destra?

9 Set 2013 14:12 - di Mario Landolfi

Nell’Italia delle mode politiche il federalismo non fa più tendenza. La scoperta arriva fresca fresca dal forum Ambrosetti di Cernobbio ed è stata immediatamente consacrata dal Corriere della Sera. Ricordate le meraviglie annunciate dalla sinistra con il nuovo Titolo V della Costituzione o l’utopia leghista di “liberare” il nord dal pesante “elmo di Scipio” o, ancora, la pia intenzione di avvicinare i livelli decisionali della politica al territorio? Tutto finito, tutto terribilmente out, peggio di una canzone del Quartetto Cetra.

Era ora. Ma non ci voleva la zingara per prevedere che la pretesa di trasformare in senso federalista uno Stato unitario nella migliore delle ipotesi ci avrebbe portato alla paralisi, nella peggiore alla guerra civile. Tutto sommato, possiamo dirci persino fortunati se il risultato consiste solo (si fa per dire) in un esponenziale contenzioso davanti alla Corte Costituzionale tra governo centrale e regioni su materie strategiche per il sistema-Paese quali energia, infrastrutture, servizi di rete, sanità e turismo, con conseguenti incertezza del diritto e disincentivo agli investimenti. La moda del federalismo, insomma, la stiamo pagando con la tasca ma appare scongiurato il pericolo dei “trecentomila bergamaschi armati”, pronti a scagliarsi contro “Roma ladrona” al solo schioccar di dita di Umberto Bossi. Finalmente ci stiamo accorgendo che gli odiati centralismi si sono moltiplicati per venti, che i governatori regionali si atteggiano a capi di Stato, che le politiche per il territorio si sono risolte in uno sterile e costosissimo rivendicazionismo istituzionale e che praticamente si stava meglio quando si stava peggio.

I guasti tuttavia restano e sono gravissimi. Ed occorrono calma e gesso per evitare di rimediare ad un errore con un altro errore. Sarà l’antropologia, sarà il clima, sarà che abbiamo avuto la Controriforma senza la Riforma, fatto sta che l’insidia degli eccessi opposti è una costante della nostra storia. Ma è un vizio che non possiamo permetterci di replicare sul tema decisivo della governance repubblicana e per di più in un contesto internazionale gravido di incognite. Finirebbe per esporci a rischi incalcolabili. Al contrario, il grido d’allarme lanciato dai settori produttivi a Cernobbio deve spronare le forze autenticamente nazionali a far uscire il tema delle riforme istituzionali dall’angusta cerchia di iniziati che ne dibatte lanciando la proposta di un processo costituente che abbia come filo conduttore il recupero della sovranità popolare e come duplice obiettivo la riconciliazione del popolo con la sua storia e quella dei territori con lo Stato.

È necessario partire dalla consapevolezza che l’Italia è più debole di altri perché sconta una fragilità interna che politicamente si traduce in una serie di tabù che a loro volta le impediscono di ammodernare il proprio impianto costituzionale. Da noi, più che governi si sono alternati regimi, ognuno dei quali ha inaugurato se stesso con la damnatio memoriae di quello precedente. Rimozioni continue, ma mai superamenti veri. Anche per questo siamo la nazione dei localismi esasperati, delle insorgenze fuori tempo massimo, dei revanscismi. Lo scrisse mirabilmente il presidente Cossiga in un suo libro quando parlò di “Risorgimento incompiuto, Vittoria mutilata, Resistenza tradita e Transizione infinita” per rendere plasticamente l’idea di una comunità nazionale perennemente sospesa tra propositi di rigenerazione ed occasioni sprecate.

Se è vero che in giro c’è voglia di destra, chi intenda politicamente rappresentarla ed elettoralmente intercettarla deve perciò partire da qui, dalla madre di tutte le questioni (quella meridionale compresa), di tutte le debolezze, di tutti i ritardi e di tutte le paure. L’Italia è una per molte genti. È nazione che si è fatta Stato. Gli ultimi decenni hanno invece coltivato la pericolosa illusione che vi potesse essere il secondo senza la prima. L’attuale Titolo V, il federalismo fiscale ed una guerra tra poveri sono i suoi avvelenatissimi frutti.

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