Così il Cavaliere ha “dimezzato” Alfano per premiare Verdini

16 Set 2013 17:07 - di Mario Landolfi

Ci vorranno tonnellate di bromuro equamente divise tra falchi e colombe per riportare un po’ di pace nel Pdl. Difficile non solidarizzare con Berlusconi, chiamato a fare il diavolo a quattro per mettere ordine in mezzo ai suoi sempre in bilico tra chi vorrebbe giubilare Letta, chi vorrebbe regalargli un elisir di lunga vita e chi, infine, inclinerebbe verso soluzioni intermedie. È fatale. Ogni volta che un danaroso parente sta per andarsene i suoi presunti eredi si azzuffano nella speranza di portarsi via la fetta più grande. Nel Pdl sta succedendo la stessa cosa a dimostrazione che i primi a non credere in un futuro politico del loro leader sono proprio quelli che si sperticano in attestati ad altissima fedeltà.
Il Cavaliere è però uomo di mondo e gran conoscitore di persone e cose. Soprattutto è abituato a far da sé e a non lasciarsi spennare come una gallina cui è stato tirato il collo. E così le spartenze le ha decise lui, con encomiabile equità, suddividendo in due parti la sua cospicua eredità politica. Alle colombe, più sensibili al fascino delle poltrone ministeriali, ha già garantito l’impegno ad appoggiare comunque il governo mentre ai falchi, da sempre interessati a tenere le redini del partito, lascia la rediviva Forza Italia, di fresco traslocata in locali più ariosi nel cuore di Roma. Tuttavia, per quanto equanime e generoso, neanche lui ha in uso il bilancino del farmacista e davvero non stupisce se anche in questo caso c’è chi sorride un po’ di più e chi invece mugugna in un angolo. Tra questi ultimi, il caso più illustre è quello di Alfano che ha visto pericolosamente assottigliarsi il suo potere nel partito. Con ragione: il vicepremier è anche ministro dell’Interno, carica nella cui sfera di competenza rientra per intero la delicatissima materia degli adempimenti elettorali, incompatibile, quindi, con quella di segretario politico nazionale che convalida deleghe e liste per il suo partito. Nulla di strano che fosse proprio lui a rimetterci il grosso delle sue deleghe. Ma non tutto è filato via liscio. Voci di dentro accreditano un lungo tira e molla sul tema che alla fine ha “costretto” Berlusconi ad affidare motu proprio, con atto sottoscritto davanti al notaio, tutte le competenze elettorali a Verdini, non a caso il più soddisfatto tra gli eredi. Tra le colombe non manca chi recrimina sui tatticismi del segretario. Avesse agito per tempo, avrebbe potuto investire delle deleghe il corregionale ed amico Schifani. Si è invece lasciato surrogare dal Cavaliere, che si è subito confermato nemico delle mezze misure: ha tolto al re delle colombe per dare al capo dei falchi. Difficile ora non decifrarla come una punizione.
Comunque sia, la scelta di tenere comunque in vita il governo apre scenari del tutto nuovi non foss’altro perché concede alla legislatura un respiro che fino a ieri nessuno sembrava disposto ad accreditarle. Ora è più chiaro che solo il fuoco amico può impallinare Letta, ma è difficile che possa accadere anche perché la nomenclatura del Pd non muore certo dalla voglia di consegnarsi mani e piedi a Renzi.
L’esame più severo riguarda però proprio il partito del Cavaliere, chiamato da qui a qualche tempo ad una durissima traversata del deserto. La morsa della decadenza e dell’incandidabilità rischia di privarlo della guida presente e della prospettiva futura. Non è uno scenario incoraggiante né tranquillizzante per una Forza Italia, abituata oggi più di ieri ad affidarsi al pilota automatico e ora chiamata a dimostrare di possedere una classe dirigente che non ha paura di volare.

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