Il Cav gioca la carta del “populismo concreto”, la sinistra se ne faccia una ragione

13 Ago 2013 14:31 - di Silvano Moffa

Se ne facciano una ragione, quelli del Pd. Nel bene e nel male, nel silenzio come nelle esternazioni, è sempre Berlusconi a menare la danza. È Lui che riempie i giornali, impone  aperture di telegiornali, ventriloqua  tramite  corpi di aquile azzurre, falchi e colombe del ri-nascituro partito di Forza Italia, apparecchia trasvolate mediterranee con velivoli leggeri a volteggiare sulle coste festosamente popolate di  turismo  nostrano, costringendolo a volgere il naso all’insù per ammirare striscioni di “Forza Silvio – Forza Italia”.  È Lui che ha trasformato l’Imu, da iniqua tassa sulle abitazioni, in una battaglia per la libertà, superba trasfigurazione del mattone in epopea rigeneratrice, passaggio sublime dal fisico al metafisico. Per chi avesse dubbi sul metodo e sul fine di cotanta spregiudicata intraprendenza,  vada a rileggere gli studi recenti di Marco Revelli sul funzionamento della cosiddetta “democrazia immediata”, in epoca di elettronica e telematica, cioè di rarefazione dei tempi della discussione e di esaltazione dei fattori emotivi. Quello che gli autori di Siamo in guerra  esemplificano con alternative semplici : «Chiedete a un italiano se preferisce avere un ospedale efficiente o bombardare la Libia, se vuole dei trasporti pubblici moderni o la guerra ai talebani, se desidera eliminare le province o ridurre gli insegnanti di sostegno ai bambini disabili». Non si chiedono che cosa succederebbe se ci si dovesse pronunciare sulla pena di morte subito dopo un efferato delitto. O sulla questione della guerra dopo un sanguinoso attentato. Conta solo rispondere con un click, con un sì e un no, in tempo reale. Il tempo, appunto, che cancella ogni meditazione, discussione, ragionata riflessione sui risvolti complessi che la domanda, ogni domanda, al di fuori delle retoriche pan-tecnologiche, inevitabilmente, pone.

È così, osserva con acume Marco Revelli, che finisce in fuorigioco il  fattore costitutivo della democrazia che è la discussione: la sua componente cosiddetta “deliberativa”, cioè l’elaborazione discorsiva delle questioni di rilevanza pubblica nell’ambito di un confronto argomentativo volto a favorire soluzioni condivise o comunque razionali. Per chi non lo avesse ancora compreso, il Cavaliere, pur con tutti i guai giudiziari che gli sono piovuti addosso e in forza anche di questi, non molla di un centimetro e ha preso per buono il consiglio di Flavio Briatore: «Faccia Lui del grillismo una versione aggiornata e vincente». Un grillismo con tocco liberal appunto, ammiccante e populista quanto basta, per rianimare il popolo deluso del centrodestra,  e rendere elettrizzante lo scontro con l’eterno avversario della sinistra, al quale si offre una mano oggi ,con il sostegno “leale” al governo Letta, per troncargli il braccio domani. È cosi palese questa neo-catarsi  berlusconiana se uno come Giorgio Napolitano si è sentito in dovere di  ingaggiare uno stuolo di consiglieri, in pieno Ferragosto, non per bivaccare a Castel Porziano, tra olmi e palme rinfrescanti  l’estiva calura, bensì per dirimere la vessata questione della “agibilità politica” dell’ex presidente del Consiglio, dopo la sentenza della Cassazione del primo del presente mese.

In questa Italia sfiduciata e sempre meno vacanziera  per ragioni di portafoglio, avvezza ormai a vivere alla giornata, senza più voglia di scommettere sul futuro, lo spazio politico, per dirla con Pierre Rosanvallon,  è   segnato dalla frattura delle linee verticali delle appartenenze partitiche. L’orizzontalità  demarca idealmente rappresentati e rappresentanti. Il popolo, privo di ancoraggio ideale, diventa “relativamente indifferenziato”  in basso da un quadro istituzionale estenuato e delegittimato in alto. Da qui muove una sorta di disincanto, che è sentimento peggiore della sfiducia. Perché è moto di disaffezione,di allontanamento ulteriore e irreversibile, elemento di sottrazione di porzioni di coscienza collettiva, rifugio nel proprio orticello, nell’io che si fa abbandono del senso comunitario, di quella dimensione di un comune destino che , da che storia è storia, è sempre stato il cemento che ha fatto grandi le Nazioni. Disincanto qui vale come paura dell’inganno, capolinea delle credenze ingenue, il “non fidarsi” più di nulla e di nessuno, anticamera di una insoddisfazione crescente, foriero di sorda ostilità.

Nel disincanto  si fa strada la nuda realtà. Non  che questa fosse stata prima assente. Tutt’altro. È che ora, nella triste e declinate contingenza dei tempi che viviamo, essa sola diventa lo spartiacque del  “credo” politico,  un patto di reciproco impegno sul quale si infrange ogni regola del passato e salta ogni barriera  sopravvissuta alle intemperie che hanno squassato i sacrari delle ideologie. La realtà, appunto. Che è fatta di  Imu e di Iva. L’una e l’altra decisive  per la “democrazia immediata,” che marcia spedita via web e inonda i canali . Su questa superba concretezza di temi attuali, come tali avvertiti  e sentiti  dai più, il Cavaliere giuoca la sua carta. Quella del populismo più concreto e suadente rispetto a Grillo. A sinistra, se ne facciano una ragione.

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