No alla sindrome da orologio rotto. La destra non può essere un eterno derby tra “coerenti” e “traditori”

15 Lug 2013 14:43 - di Mario Landolfi

C’è fermento a destra. Ferrara, Palermo, Lecce, Firenze, Orvieto sono tappe di un passaggio stretto ma obbligato per tentare di raggiungere l’obiettivo (non facile) della riunificazione dopo la diaspora. Possiamo centrarlo solo se la destra riesce ad affrancarsi da quella sindrome da orologio rotto che da tempo immemorabile le impone di trasformare ogni vicenda interna in un infuocato derby tra “coerenti” e traditori”. Mi spiego meglio: anche un orologio rotto è capace di segnare l’ora esatta due volte al giorno. Ma solo perché le sue lancette ferme. La fissità è perciò concetto assai diverso dalla precisione, così come l’immobilismo è tutt’altra cosa rispetto alla coerenza. Alla politica, però, capita spesso di confonderli fino a farli apparire identici.

Nella storia della destra italiana è capitato più che altrove. Ricordate? Correva l’anno 1995 e a Fiuggi scesero copiose le lacrime di fronte alla dissolvenza della Fiamma missina, di lì a poco allocata in formato bonsai nel logo della nascente Alleanza Nazionale. Lo stesso accadde in misura più drammatica in occasione della nascita del Pdl, nel 2009. Lì la Fiamma scomparve del tutto per entrare nel mito della simbologia politica. E quando poco dopo Fini molla il partito che aveva cofondato per lanciarsi nella fallimentare avventura del Fli, lo scontro tra “coerenti” e “traditori” raggiunge comprensibilmente il suo punto più alto.

La destra è fatta così: un mondo emotivamente caldo, in perenne ebollizione e pronto ad avvitarsi in un incessante rinfacciarsi di svolte, tappe, strappi e persino di animali: Fiuggi, la Coccinella di Verona, l’Elefantino di Segni, l’abbandono di Storace, la nascita del Pdl, l’aborto di Fli ed infine il varo di Fratelli d’Italia. Ognuna di queste fasi, seppur sotto traccia, è sempre stata accompagnata da una partita tutta interna alla destra tra “coerenti” e “traditori”. Categorie non a caso mutuate dal prepolitico, a geometria variabile e tuttavia poggianti su un comune denominatore: la sindrome da orologio fermo, cioè l’immobilismo certificato per coerenza. Chi si è opposto ad An lo ha fatto in nome del Msi, esattamente come chi si è opposto al Pdl lo ha fatto in nome di An e così via.

Ancora oggi, molti non si spiegano l’abbandono “della casa del padre” in quel di Fiuggi nel momento in cui l’elezione diretta sfornava sindaci missini e Roma e Napoli si trasformavano d’incanto in arene di straordinarie performance elettorali. E non sentiamo forse recriminare tutti i giorni che l’errore più grande di Fini è consistito nello “spegnere la Fiamma”? Dimenticano, i “coerenti” di tutte le epoche, che senza la nascita di An il bipolarismo italiano sarebbe probabilmente morto tra la fine del primo governo Berlusconi e l’avvento del governo Dini. Fossimo rimasti anche nel logo e nel simbolo lo stesso partito, non avrebbero tardato molto ad inventarsi un altro ghetto. I voti li prese il Msi, è vero. Ma fu An a dare a quel consenso una prospettiva di lunga durata con cui sopravvivere agli inverni delle sconfitte e dei ribaltoni. Così come, sempre i “coerenti”, dimenticano che Fini il Pdl lo ha più subito che cofondato. Non solo metà partito ma più della metà dell’elettorato stava idealmente sul predellino di Berlusconi. Al leader di An non restò che adeguarsi al formidabile intuito del Cavaliere, insuperabile nel fiutare quel che bolle nella pancia degli italiani. E in giro c’era una gran voglia di ulteriore semplificazione del quadro politico con la riduzione di fatto a due partiti. A sinistra anche Veltroni batteva la pista del bipartitismo con la tesi del Pd a vocazione maggioritaria. Potevamo opporci, certo, in nome della “coerenza” ma avremmo preteso di indicare l’ora esatta con le lancette ferme su una situazione in tumultuosa evoluzione. Prova ne sia che la successiva, inspiegabile inversione ad “u” di Fini (suo vero grande errore) non lo ha solo separato da Berlusconi ma ne ha sancito il divorzio dai suoi stessi elettori. Se An fosse rimasta a ranghi serratissimi nel Pdl, nessuno avrebbe potuto “asfaltarla” e a nessuno oggi passerebbe dalla testa di riesumare Forza Italia.

Certo, la storia non si fa con i “se”. Tuttavia, lo sforzo di illuminare le fasi di un percorso così complesso con i fari della politica e non con gli abbaglianti del prepolitico può tornare utile ad inquadrare il contesto in cui le scelte maturavano per fuoriuscire finalmente dalla linea di faglia “coerenti”-“traditori”. Del resto, è questa la prima condizione se davvero si vuole il “ritorno ad Itaca”, come con rara efficacia qualche tempo fa Marcello Veneziani sintetizzò la ricomposizione in un soggetto unitario della destra nazionale. La seconda è convincersi seriamente che non c’è spazio per operazioni nostalgia. Itaca non è una mitica età dell’oro in cui tutto era più bello, più giusto e più pulito solo perché ci arriva dal passato. È semmai il ritorno ad un patrimonio ideale, tuttora incredibilmente vitale, da cui attingere tesi, soluzioni, valori con cui affrontare, in nome dell’Italia, le sfide dei tempi nuovi.

Se dunque questo viaggio s’ha da fare, mettiamoci ai remi. E sincronizziamo gli orologi.

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