Sulla Germania bravo Cavaliere, ma non trascuriamo i “tedeschi” di casa nostra

7 Giu 2013 20:06 - di Mario Landolfi

Solo il pregiudizio più duro a morire può impedire di dar ragione a Silvio Berlusconi quando consiglia ad Enrico Letta di rappresentare ai partner europei, in particolare alla cancelliera tedesca Merkel, la crescente insofferenza italiana per come le istituzioni comunitarie stanno fronteggiando la crisi e di dire loro senza mezzi termini che ove mai perdurasse il culto del rigore di bilancio quale unico nume per venirne a capo, il governo italiano non esiterebbe a prendere in considerazione l’uscita dall’eurozona ed il ritorno alla lira. In poche parole, a mali estremi, estremi rimedi.
Al netto della possibile strumentalità sottesa all’esortazione del Cavaliere, è davvero difficile, anzi incomprensibile, come una parte della politica – per di più a lui oggi alleata – rinunci per semplice partito preso a fornire una copertura bipartisan al premier in carica alla vigilia di un vertice a quattro (Germania, Italia, Francia e Spagna) i cui esiti potrebbero risultare finalmente innovativi rispetto alle strategie finora adottate a livello europeo contro la crisi.
Esortando Letta a non avere remore a battere i pugni sul tavolo, Berlusconi non ha dato solo voce agli umori cupi di un Paese sempre più disorientato ed impaurito, ma ha inteso affidare a Letta un messaggio di serissima preoccupazione. Solo chi, come certa sinistra, ha spezzato i legami con il profondo sentimento popolare per fare da megafono ad una sedicente “Italia migliore”, può ignorare che per la gente comune l’Europa coincide sempre meno con il nobile ed ambizioso traguardo di prosperità e di pace fissato nel secondo dopoguerra per somigliare sempre di più ad una cambiale che scade ogni giorno. Il Cavaliere sa bene che uscire dall’euro è poco più di uno slogan. Almeno per ora. I suoi frettolosi detrattori dovrebbero tuttavia sapere che non sarà così per sempre.
E dovrebbe saperlo anche la Germania. La ricetta di Berlino per uscire dalla crisi non sta funzionando. Il rigore, da solo, non basta. Non avrebbe alcun senso gioire per il raggiunto pareggio del bilancio se nel frattempo le imprese chiudono, il commercio muore, la disoccupazione dilaga.
Sbaglierebbe, però, chi pensasse che quanto sta accadendo sia il frutto di un mero errore di impostazione o di un’analisi sballata. La situazione è ben più complessa. In realtà, come tante volte nella loro millenaria storia i tedeschi sembrano arroccati su posizioni di autodifesa o di autoaffermazione. Quasi a pareggiare il formidabile contributo offerto all’umanità in ogni campo, essi non hanno mai fatto mistero della loro volontà egemonica nel segno del pangermanesimo. Tutto ciò è proprio dei grandi popoli. Ma non tutti i grandi popoli sono in grado di diventare realmente imperiali. La Germania ha sempre aspirato alla grandezza, e spesso lo è stata. Mai però è riuscita a rendersi universale, cioè ad irradiare e ad esportare la propria luce per illuminare e riscaldare gli altri. Quasi mai le è infatti riuscito di associare liberamente altri popoli al proprio destino ed alla propria missione. Non è solo per ragioni militari che ha perduto due guerre mondiali nonostante la ricchezza degli equipaggiamenti, la disciplina delle truppe e la potenza degli armi. A mancarle – per dirla in tutta modernità – è stato soprattutto il software.
E la musica non è cambiata. Il progetto un’Europa più tedesca ha oggi le fattezze di frau Merkel. Il suo sogno non è certo l’avvento del Quarto Reich né una riedizione di quella carolingia ma di certo la sua Germania non coincide con i confini di quella riunificata da Helmut Kohl. È una Germania più larga, la cui area d’influenza coincide grosso modo con quella che un paio di decenni or sono orbitava intorno al marco: Paesi Bassi, Scandinavia meridionale, parte dell’Europa ex-comunista (Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, Paesi Baltici), il nord dei Balcani, Austria, ed il nord-centro dell’Italia.
La cura tedesca del rigore, in cui non è difficile cogliere la diffidenza dei cosiddetti Stati-formica del nord protestante verso gli Stati-cicala del sud cattolico e mediterraneo, sta scavando all’interno di quest’ultimi un fossato ogni giorno più largo e profondo tra popoli ed istituzioni, tra governanti e governati. Continuare ad assumerla, significa esporsi alla furia popolare. I segnali in tal senso sono già fin troppo eloquenti.
Frau Merkel deve convincersene: non può esistere una moneta unica senza una banca centrale in grado di difenderla dagli speculatori e, per di più, in circolazione in nazioni diverse tra loro non solo per storia, lingua e cultura, ma per sistemi fiscali, per sistemi di vigilanza sugli istituti di credito, per relazioni sindacali, per modelli di sviluppo e così via. Questa non è l’Europa. È Babele. Con buona pace degli euroeuforici tuttora in servizio, che questa condizione di pericolosa confusione venga energicamente evidenziata dal governo italiano nel corso del prossimo vertice tutto sembra tranne che un reato di lesa maestà.
Un post scriptum va però riservato anche al presidente Berlusconi, anche perché, come tanti di noi, anzi senz’altro più di noi, egli non è un marziano sceso casualmente tra i terrestri, ma un leader politico ed un uomo di governo che ha impresso il proprio marchio sugli ultimi vent’anni di politica italiana. Noi rischiamo più dei francesi, degli spagnoli, dei portoghesi e persino dei greci di finire travolti dal perdurare dello stato delle cose. E non in ragione di numeri, statistiche e parametri quanto per una nostra singolare condizione geopolitica che fa replicare all’interno del nostro territorio e quindi ben dentro le nostre istituzioni quella stessa linea di faglia tra nord e sud che oggi allarma il Vecchio Continente e che su scala ridotta domani potrebbe squassare l’Italia. L’esortazione a Letta è cosa buona e giusta ma diventerebbe addirittura sacrosanta se fosse seguita da un’altra, altrettanto accorata, all’alleato leghista affinché non privilegi mai ed in nessun caso vie di fuga dalla crisi dettate da egoismi localistici e non dall’interesse nazionale. Anche perché è solo attraverso il primo che passa lo straniero.

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