Ecco perché D’Alimonte sbaglia a sottovalutare i rischi dell’astensionismo

10 Giu 2013 13:16 - di Silvano Moffa

Ha un bel dire il professor D’Alimonte che, alla fin fine, la democrazia non deve essere messa in discussione dal calo dei votanti. Che la legittimità degli eletti è intatta. E siccome siamo un Paese di anziani e gli anziani sono restii a recarsi al seggio, soprattutto nei ballottaggi, il fenomeno dell’astensionismo è fisiologico. In fondo,è la sua tesi fuoriviante, nel mondo anglosassone non c’è mai stata una massiccia partecipazione al voto. Cameron, in Inghilterra , è stato eletto dal 65 per cento degli aventi diritto al voto e negli Stati Uniti la base elettorale che elegge i sindaci non supera quasi mai il 45 per cento.

Fare questi paragoni è inappropriato e pericoloso. È inappropriato, perché da noi l’elemento partecipativo, dal dopoguerra in poi, ha sempre mantenuto un livello alto, toccando picchi anche di oltre il 90 per cento. E’ pericoloso, perché finisce con alimentare ulteriormente un quadro illusorio, consegnando un alibi al sistema dei partiti. Con analisi di questo tipo si rischia che il giorno dopo nulla muti e tutto resti come prima. O peggio che ci si accomodi nel cercare soluzioni di mera sopravvivenza  e  di autoconservazione che molto hanno a che vedere con l’articolazione di un sistema politico autoreferenziale, il cui unico obiettivo è mantenere il potere nelle mani di  pochi,  e per nulla riguardano il bene comune.

La certificazione della implosione del sistema politico, come correttamente la definisce Gennaro Malgieri su queste stesse colonne, presenta tratti particolari nel nostro Paese. Essi andrebbero indagati e scandagliati in profondità. Fermarsi alla superficie del fenomeno senza analizzarne la radice è stucchevole oltre che irresponsabile. Se è vero, infatti, che la crisi sociale ed economica che si è abbattuta come una tempesta sui cittadini e le imprese rappresenta un fattore non indifferente nel cambiamento di umore degli italiani e nello scoramento che si intravede in una generalizzata e   consistente perdita di fiducia, è altresì vero che tra le forze politiche superstiti, al di là delle promesse verbali  più o meno ripetitive che vengono dispensate con quotidiana pervicacia, non assume plastica e concreta evidenza una  “offerta” che presenti i caratteri di un reale e concreto Progetto   per l’Italia.

In più, assistiamo pressoché inermi ad una perdita di senso collettivo. In termini politici e in termini sociali. Politicamente si arranca intorno al tema delle Riforme, sia sul versante istituzionale sia su quello economico. Dovremmo porre al centro il tema della Sovranità nelle dinamiche tese ad individuare per l’Italia un ruolo in Europa e nel Mediterraneo , ma di tutto si parla fuorchè di questo. L’euro  inteso come soluzione dell’unità tra i popoli europei sta diventando un problema. E non c’è nessuno, in ambito Comunitario, che accenni  a cambiare rotta rispetto alle politiche di austerità e del debito  che  hanno procurato recessione e impoverimento delle nazioni più deboli. Tutte quelle del Sud Europa.

L’idea di una società in perenne movimento, alle prese con i grandi cambiamenti indotti dalle tecnologie della informazione e della comunicazione,  ha assunto sempre più  forza  di “Zivilisation”  nella dimensione globale,  ma ha perduto il carattere di “Kultur”, come ammoniva Oswald Spengler  agli albori del secolo scorso, nelle sue acute riflessioni  sulla rivoluzione industriale e sulla ascesa e declino della civiltà delle macchine. Succubi dei riti del consumismo, travolti dal mito del possesso delle merci, alienati nella sfera dell’edonismo più  sfrenato, abbiamo lasciato decantare il grumo di ideali che reggeva la nostra vita. Sprofondati nel privato, chiusi in noi stessi, egoisti nella terra di nessuno, vittime degli strumenti della più perfida e invasiva tecnica finanziaria, abbiamo separato lavoro e capitale, annullando l’uno e trasformando l’altro. “Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita – ricordava T.W. Adorno – non è più se  non una appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria”.

Gestiamo a mala pena l’esistente. Ma non animiamo alcuna idea di futuro. E quel futuro che è già in noi, dentro di noi, assume forme evanescenti per colpa di una politica vuota e senza costrutto. Non ci sono stimoli. E neppure èlite in grado di accendere il fuoco della passione, la scintilla di una utopia che rimuova l’indolenza, che faccia uscire dall’apatia, che rigeneri fiducia e slancio, che mobiliti le coscienze. Se, come sta accadendo, persino nella scelta del sindaco che deve guidare la propria città, la comunità si rinserra nel “non voto”, siamo ben oltre la rassegnazione. Siamo all’annullamento. Per mancanza di punti di riferimento. Per dispersione di valori. La discrasia tra popolo e nazione si fa patologica. Irreversibile. Se così stanno le cose, ci vuole un nuovo inizio. Non è più tempo dei pigmei del pensiero debole.

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