Se De Magistris è un sindaco incapace lo dicano i cittadini e non i pm

17 Mag 2013 17:54 - di Mario Landolfi

Succede a Napoli, ma prima o poi accadrà ovunque. Succede a Napoli che il pool di magistrati preposti a punire i reati contro la pubblica amministrazione iscriva nel registro degli indagati il sindaco de Magistris e l’assessore alla Mobilità, Anna Donati, con l’accusa di omissione d’atto d’ufficio e attentato alla sicurezza dei trasporti per lo stato penoso in cui versano le strade cittadine. Detta così, niente di strano. Anzi, che il primo cittadino di Napoli sia – politicamente parlando – un palloncino floscio è verità di cui si vanno accorgendo a loro spese i suoi stessi concittadini che giorno dopo giorno toccano con mano l’insostenibile leggerezza di una giunta comunale partita con cipiglio rivoluzionario ed ora costretta a fare i conti con palazzi che crollano, strade bucate, lungomare bloccato, traffico impazzito e commercianti incazzati. Ma anche questo è normale sotto il Vesuvio.
Quel che invece normale non è, anzi – a dire il vero – appare decisamente anomalo è la contestazione che in due distinti interrogatori durati ben otto ore (cinque per l’assessore e tre per il sindaco) gli inquirenti hanno mosso agli indagati. In particolare, ai due è stata addebitata la mancata adozione di una delibera che destinasse alla manutenzione delle strade i proventi delle multe e di aver utilizzato ben tre milioni di fondi comunali per organizzare due edizioni della prestigiosissima America’s Cup. Un impegno ritenuto evidentemente secondario rispetto a quello della sistemazione di un manto stradale ormai ridotto ad autentica groviera.
C’è da giurare che la quasi totalità dei napoletani, soprattutto gli automobilisti di ogni ordine e grado, abbia esultato e acceso un cero votivo a San Gennaro per aver dotato la loro città di magistrati così attenti e solerti. Ed indubbiamente l’iscrizione del sindaco nel registro degli indagati con l’accusa di aver anteposto all’eliminazione delle buche in strada le gare velistiche tra Ischia e Capri, è certamente destinata a riscuotere una più che larga popolarità. Ma il punto è proprio questo: è sufficiente una forte “domanda” popolare ad innescare l’attivazione del meccanismo giudiziario? E ancora, spetta all’azione dei togati la pur meritoria messa in mora di amministrazioni pubbliche inefficienti? Non c’è il rischio che il tutto di configuri come esercizio di un ruolo di supplenza della politica destinato fatalmente a sfociare in logiche di captazione e formazione del consenso assolutamente estranee ai compiti della magistratura?
In poche parole, il punto è capire se a un amministratore possano essere contestate in sede giudiziaria le priorità politiche da egli autonomamente selezionate e delle quali è responsabile di fronte ai cittadini. Fino a prova contraria, la magistratura accerta condotte in merito a fatti che il nostro codice prevede espressamente come reati. Con tutta la buona volontà e con il massimo della distanza politica dalle scelte effettuate da de Magistris, non sembra che le circostanze a lui addebitate – almeno se restano queste – possano configurare ipotesi delittuose. Persino se avesse sperperato soldi pubblici, spetterebbe alla Corte dei Conti e non alla magistratura ordinaria agire e decidere.
La vicenda napoletana è tuttavia emblematica di una tendenza ormai consolidatasi in Italia che va ben oltre la guerra che da vent’anni vede politici contro toghe e viceversa. Qui c’entra davvero poco l’obbligatorietà dell’azione penale, il riserbo sulle indagini e persino la consistenza del capo d’accusa. L’indagine partenopea segnala un salto di qualità e racconta tutta un’altra storia.
Una storia che però non è sfuggita ai politologi de Il Mulino che in una ricerca scientifica coordinata da Leonardo Morlino, Daniela Piana e Francesco Raniolo («La qualità della democrazia in Italia») analizzano puntigliosamente lo stato dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese: dai fondi stanziati per il suo funzionamento alla lunghezza dei processi, alle ore di lavoro nei tribunali fino ad evidenziare con la matita blu l’anomalia tutta nostrana della mediaticità inseguita da settori della magistratura attraverso le indagine su temi e personalità della politica. Tutte cose già note, certo. Non così, però, la conclusione cui i tre politologi giungono. A loro giudizio, infatti, in Italia sarebbe in atto una «politicizzazione delle istituzioni apolitiche e una depoliticizzazione di quelle politiche». Si tratta di una conclusione decisamente inquietante che la persistente condizione di debolezza della rappresentanza politica autorizza a ritenere non transeunte. Tutt’altro. Significa che le anomalie sono ad un passo dal diventare strutturali, cioè non più dipendenti dal protagonismo di un pm o di un giudice, e quindi serio fattore di rischio per lo stato di diritto basato sul principio della separazione dei poteri.
E somiglia tanto a una nemesi il fatto che a finirne oggi vittima sia proprio quel Luigi de Magistris che, da togato, alle vistose anomalie denunciate dai tre professori ha fornito un contributo davvero non irrilevante.

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