Effetto-Jolie. Al Sant’Andrea di Roma è boom di richieste di test genetici. Ma l’esperta spiega…

28 Mag 2013 15:20 - di Gloria Sabatini

Chiamatelo contagio, effetto-traino, suggestione da dipendenza mediatica. I numeri parlano da soli. Telefoni bollenti all’Unità di diagnosi e terapia in senologia dell’ospedale Sant’Andrea di Roma dopo il caso Angelina Jolie. Le richieste per eseguire i test genetici sono aumentate dell’80%, generate per lo più da paura o da scarsa conoscenza nella prevenzione. Tutto parte dalla notizia che la bellissima attrice trentasettenne si è sottoposta all’asportazione dei seni per ridurre i rischi del cancro,  visto che sua madre nel 2007 era morta per un tumore alle ovaie e lei stessa aveva appreso da un test di avere un gene che aumenta dell’87% il rischio di un tumore alla mammella o alle ovaie. La notizia, unita a quella della morte della zia per la stessa malattia, è rimbalzata anche in Italia creando il panico in molte donne. Il boom di richieste è stato rivelato dalla responsabile del reparto, Adriana Bonifacino. «Chiamano per sapere se possono fare il test o se sono eleggibili per fare consulenza genetica. L’effetto Jolie – spiega – è stato uno tsunami, anche perché trova una popolazione impaurita e poco informata in fatto di prevenzione». Purtroppo il messaggio che è passato è  del tipo “ho paura del cancro e mi tolgo le mammelle”. Come se non bastasse non è chiaro alle donne italiane chi si deve sottoporre al test. «Secondo i protocolli internazionali adottati nel nostro paese – spiega la dottoressa del Sant’Andrea –  per sottoporre al test le persone sane è necessario che nel famigliare affetto dalla malattia sia dimostrata la presenza della mutazione”. In pratica prima fa il test la donna malata poi eventualmente la parente sana che lo può aver ereditato. «È inutile farlo a tutta la popolazione. Innanzitutto solo sapendo quale è il gene malato so cosa cercare nel soggetto sano», spiega, «inoltre il costo del test è tale che non giustifica un’operazione a tappeto su persone non a rischio». Chi ha diagnosticata la mutazione – spiega ancora l’esperta – ha davanti tre strade: “essere una sorvegliata speciale”,  cioé entrare nei protocolli di prevenzione che prevedono una risonanza magnetica all’anno a partire dai 25 anni, un’ecografia ogni 6 mesi e una mammografia annuale a partire ogni 30 anni; eseguire una mammectomia, cioé togliere solo la ghiandola mammaria  ricostruendo  il seno; prevenzione farmacologica, ancora in fase sperimentale». Parola d’ordine: non fare confusione, e (anche se la Bonifacino non lo dice) non farsi inghiottire dalle notizie sensazionali che affollano telegiornali e siti. «Il messaggio che deve passare è di tranquillità: sapere di avere la mutazione é un atto di consapevolezza e va letta come opportunità di potermi salvare».

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