Conformismo e “presentismo” fanno male al Pdl

29 Mag 2013 15:20 - di Mario Landolfi

Bisogna dare atto a Fabrizio Cicchitto di essere uno dei pochi capace di steccare meritoriamente nel coro dei trionfalismi “a prescindere” sempre attivo nel PdL. Lo ha fatto anche all’indomani del primo turno amministrativo con parole di assoluto buon senso. Ha riconosciuto l’esito non positivo del voto di domenica scorsa, ha tracciato una netta differenza tra il partito del Nord, totalmente Berlusconi-dipendente, e quello del Sud, dove funziona ancora il traino della classe dirigente locale. Infine, ha auspicato un PdL meno condizionato dal carisma del leader e più strutturato sul territorio e nella società.
Non sono concetti originali. Ma il loro riemergere è un aggravante perché è la spia che sono da troppo tempo elusi, evitati. Forse è ora di affrontarli con il linguaggio della chiarezza.
Solo chi non ha letto bene il voto di febbraio può dirsi deluso da quello di maggio. Tre mesi fa il PdL ha perso ben 6 milioni di voti. Nessuno nel partito ne ha mai voluto parlare. Non una riunione, non un’analisi del voto, men che meno ha battuto un colpo uno degli organi previsti dallo Statuto (molti forse lo ignorano, ma anche il PdL ne ha uno). Tutto è scivolato via lungo il pendio dell’entusiasmo per il mancato trionfo di Bersani e così ci siamo convinti di averle addirittura vinte noi le elezioni. Domenica scorsa ci siamo però accorti che qualcosa non torna, ma – ad eccezione di Cicchitto e di qualche altro dirigente – non si respira aria di vera preoccupazione anche perché stavolta il sorriso ce lo procura il crollo dei grillini, come se non sapessimo che la parabola del M5S è molto simile a quella della Forza Italia delle origini: esaltanti performance nazionali, deprimenti addirittura quelle locali.
Da allora, però, di acqua ne è passata sotto i ponti e la coalizione guidata dal Cavaliere ha man mano conquistato città come Milano, Roma, Palermo, Bari, persino Bologna. Dei grandi centri metropolitani solo Napoli e Torino non hanno mai avuto sindaci targati centrodestra. Da un paio di anni – in pratica dopo la sconfitta della Moratti ad opera di Pisapia – il motore azzurro segnala nuovamente avaria sui territori, specie al Nord. Pesano sicuramente l’astensionismo alimentato dall’antipolitica, la prepotente emersione del fenomeno Grillo, l’appannamento della Lega. Sarebbe, però, un errore trascurare le cose di casa nostra, a cominciare dalla rappresentazione di un PdL sempre più sbiadito nelle culture politiche di riferimento e sempre più conformista nella vita interna.
Non è un’esagerazione affermare che dal punto di vista organizzativo il PdL può ben descriversi come un nulla sospeso tra il corpo elettorale ed il corpo del suo capo, i voti e Berlusconi, cioè i suoi unici elementi costitutivi. In mezzo non esiste niente. Non un élite dotata di vera autonomia, non un’articolazione interna capace di rompere l’assedio dell’unanimismo posticcio e fuorviante, non una struttura periferica in grado di imporre all’agenda del partito nazionale rilevanti ed emblematiche questioni territoriali.
Si tratta di un esito non casuale ma nemmeno scontato. Il PdL lo ha scientemente determinato azzerando – in conto della continua emergenza giudiziaria cui è costretto Berlusconi – una dopo l’altra tutte le culture politiche da cui era animato. Non ne è rimasta nessuna. Persino quella incarnata da Forza Italia è rinvenibile solo in labili e scolorite tracce. Del resto, esse servono a ben poco se l’orizzonte è un “presentismo” da conservare od ogni costo, come dimostra la sempre più esplicita difesa del Porcellum elettorale in funzione di blindatura di un assetto di partito totalmente dipendente dal vertice.
Se ne potrebbe uscire facendo rientrare nel PdL il gusto della partecipazione, sempre più soccombente rispetto al rito della mobilitazione. Nessuno impedisce ad un partito dotato di una leadership eccezionale di attivare e valorizzare l’apporto di una classe dirigente.
Insomma, siamo tutti contenti che “Silvio c’è”. Ma saremmo anche tranquilli se sapessimo che c’è anche un partito, forte e radicato, capace di sopravvivergli.

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