Incessante pellegrinaggio in Campidoglio per l’addio a Califano. Sulla lapide “non escludo il ritorno”

1 Apr 2013 13:48 - di Priscilla Del Ninno

Quel «tutto il resto è noia», tatuato sul suo polso destro come nella memoria collettiva, e a coprirlo gli immancabili braccialetti, e poi, collana e camicia aperta sul petto: vestito proprio un giorno qualsiasi, (ma purtroppo non lo è ), il Califfo arriva alla Protomoteca del Campidoglio, che diventa piccola per accogliere una città sgomenta, riunita nelle aule del comune per dire addio al suo cantautore, un maestro, come ha ricordato il sindaco Alemanno annunciando che a lui sarà intitolata una strada, «simbolo dell’anima più popolare della città». E in quelle sale, dalle atmosfere istituzionali, sembra quasi riecheggiare sommessamente quel beffardo «non escludo il ritorno», (titolo di una sua canzone), che tra il serio e il faceto Califano avena lanciato una volta da un palco, come frase da incidere sulla sua lapide, cosa che avverrà sicuramente, come ha annunciato un amico. Dalle 10 di questa mattina, da quando si è aperta la camera ardente, dunque, un flusso incessante di persone visibilmente commosse, sta tributando l’ultimo saluto all’artista romano scomparso sabato nella casa di Acilia dove abitava. Un vero e proprio pellegrinaggio  preceduto solo poco prima dalla processione silenziosa che ha portato amici e affetti cari nella villetta di Acilia, il quartiere periferico della capitale, dove si è spento dopo un periodo di malattia il “maestro”,  simbolo di Roma: tra loro, anche Edoardo Vianello, amico di lunga data. Come non poteva mancare Fiorello, fraterno sodale di una delle tante rinascite artistiche di Califano, tra i primi a dirgli addio, insieme all’attore Maurizio Mattioli. Domani alle 11 i funerali, che saranno celebrati nella Chiesa degli artisti in Piazza del Popolo. Nel cuore di quella Roma con cui Califano aveva da sempre un legame dalle radici profonde, una città che ha fatto da sfondo ai suoi successi e da set di una vita che lo ha visto protagonista della scena, ora playboy incallito, ora poeta romantico. Una Roma, palcoscenico a scena aperta di concerti, spettacoli, e persino di una lezione alla Sapienza nel 2001, dove era stato invitato per parlare dei testi dirompenti delle sue canzoni, e ultimamente anche di un tour nelle carceri del Lazio, grazie ad un’iniziativa della Regione di cui lui era molto soddisfatto. E allora, quella romanità spesso sinonimo di tracotanza bonaria. Quel suo fascino gaglioffo unito a un temperamento spericolato, nel tempo hanno accreditato di lui l’irresistibile maschera del “macho” irriverente e indomito, chiamata a nascondere un animo vulnerabile. Una sensibilità, la sua, rinnegata sotto quel panama bianco e nascosta dietro quel sigaro in bocca che da una copertina di uno dei suoi tanti successi ostentavano spregiudicatezza da latin lover, e tradotta in tanti indimenticabili canzoni cantate da lui, o regalate a Mina, Mia Martini, Ornella Vanoni. E allora, non solo Tutto il resto è noia, ma anche Minuetto, La musica è finita, E la chiamano estate, Una ragione di più, accanto a La vacanza di fine settimana e a Io non piango, diventano il manifesto esistenziale di un autore e di un interprete a metà tra mondanità e solitudine, palco e periferia. Indecifrabile quanto genuino, capace di raccontare l’amore più alto e il fondo toccato in tante storie alla deriva. Di cantare una vita punteggiata da eccessi che, tra ricchezza e difficoltà economica, vocazione alla trasgressione e insofferenza per le convenzioni, ha alimentato il mito dello chansonnier maledetto che non si è risparmiato neppure l’esperienza del carcere, anche quella sublimata in musica grazie all’album Impronte digitali. Un irrefrenabile amore per la canzone, che non ha abdicato nemmeno alla malattia, se non più in là del 18 marzo scorso il Califfo si era esibito al Sistina di Roma. «Comincerò ad invecchiare cinque minuti prima di morire» disse una volta. E così è stato.

 

 

 

 


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