Chi ha gridato “Rodotà” si converta al presidenzialismo

22 Apr 2013 11:02 - di Mario Landolfi

“Ro-do-tà, Ro-do-tà, Ro-do-tà”, l’urlo minacciosamente ritmato dalla piazza grillina a trazione comunista non può non evocare quello che in ben altra temperie e con ben altro spirito faceva sognare al popolo missino un “Almirante presidente” bello e impossibile.
Tra ora ed allora esiste però una profonda differenza. Noi missini eravamo presidenzialisti. Il nostro programma politico faceva culminare nella modalità dell’elezione diretta un ambizioso e moderno progetto di riforma dello Stato finalizzato a spuntare gli artigli dell’allora imperante partitocrazia ciellenista. Erano, quelli, gli anni della guerra frontale al sistema dei partiti, il bulimico moloch generato dalla prassi politica cui venivano immolati l’uno dopo l’altro – a mo’ di lievito per il debito pubblico – pezzi di Stato sempre più cospicui, fino ad includervi la più alta magistratura repubblicana, ossia il Quirinale. La destra, al contrario, battagliava nelle piazze e nelle aule parlamentari per liberarla dall’asfissiante tutela delle segreterie politiche rivendicandone la legittimazione popolare.

È una questione tuttora irrisolta. C’era perciò coerenza e perfetta aderenza tra quello per cui politicamente ci battevamo e quello che sognavamo: l’Italia come la Francia, Almirante come De Gaulle.  Non così quelli che oggi con supremo sprezzo del ridicolo gridano al golpe, al “golpino” o alla legalità vulnerata solo perché i Grandi elettori non hanno ritenuto di dover eleggere il loro candidato al Colle più alto. “È la repubblica parlamentare, bellezza”, verrebbe da obiettare a chi si sta atteggiando a santo protettore di una molto presunta volontà popolare. Quella stessa repubblica parlamentare scolpita nella Costituzione e che una parte tuttora maggioritaria della sinistra addirittura venera alla stregua di un inviolabile totem.

Ricordo male o dalle parti di Bersani, Vendola e dello stesso Grillo la soluzione presidenzialista ha sempre riecheggiato trame opache, piani più o meno eversivi di “Rinascita Nazionale”, Licio Gelli, la P2 e persino la temutissima deriva “di stampo cileno” ossessivamente denunciata dai comunisti sin dagli anni ’70? Ricordo ancora male o è dalle parti dei Cinquestelle che non più tardi di due mesi fa veniva teorizzata (si fa per dire) una funzione puramente ornamentale dell’esecutivo a tutto vantaggio del ruolo del Parlamento? Sbaglio o era sempre da quelle stesse parti che si sosteneva (e tuttora si sostiene) la tesi del potere delle Camere di legiferare prescindendo persino dall’esistenza stessa del governo? Sembrava l’uovo di Colombo, la scintilla capace di far avviare la nuova legislatura e con essa l’attività parlamentare nelle more della formazione del nuovo gabinetto.

Sul punto si sono persino accapigliati opinionisti autorevoli e costituzionalisti di vaglia. Ma non era una soluzione nuova, partorita dalla magia della rete. Era tutto vecchio, vecchissimo, anzi decrepito. Si chiama assemblearismo, è un’idea fallita sin dai tempi della Rivoluzione francese, pur tuttavia legittima, ma che mal s’attaglia all’isteria pro-Rodotà. Non si può infatti deificare il parlamento e poi rifiutarne l’opera. Gli dei non si contestano. Si possono sostituire, questo sì. Ma proprio qui casca l’asino: grillini e sinistra radicale non vogliono farlo. Pretendevano di imporre un nome per moto di piazza ma giammai si acconcerebbero ad introdurre il presidenzialismo per via costituzionale. L’elezione diretta la rifiutano. Si sono inventati e si sono intestati una non meglio precisata volontà generale cui hanno tentato di piegare come un debole giunco quella del sovrano legale, il Parlamento, che invece ha resistito.
“Rodotà presidente di tutti” è uno slogan-falsità che rischia di assurgere ad ennesima menzogna ufficiale della solita minoranza organizzata e urlante. Tutti chi? Cinquantamila, ma anche centomila e persino diversi milioni di click sul tasto di un computer non fanno una volontà generale, ancor più se in loro soccorso si scatena la collaudata capacità di mobilitazione tipica della sinistra che “non ci sta”.

La questione è quasi brutale nella sua semplicità: chi oggi elegge il massimo vertice dello Stato è il Parlamento in seduta comune. Se vogliamo che in futuro a farlo siano i cittadini o, come dicevamo noi, il popolo, occorre cambiare la Costituzione. Che sarà anche “la più bella del mondo”, a sentire i suoi interessati guardiani, ma poiché è stata scritta da uomini e non dettata da Dio può benissimo essere adeguata ad una realtà profondamente diversa da quella dell’immediato dopoguerra. Del resto, è inutile giocare ai rottamatori o alla rivoluzione se poi non si ha il coraggio di dotare la Repubblica di nuove regole in grado di farle affrontare i problemi posti dai tempi nuovi. Il dramma della sinistra, vecchia e nuova, è ancora tutto qui.

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