Asse Renzi-D’Alema, mentre la guerra per il Colle imperversa

12 Apr 2013 9:58 - di Gennaro Malgieri

Può anche darsi che non sia la “bomba” Renzi che farà saltare per aria il Pd, come scivevamo ieri. Fatto sta che per disinnescarla i democrat hanno inviato al sindaco di Firenze un’ambasceria di prima grandezza. Niente di meno che Massimo D’Alema, la “vittima” eccellente del rottamatore. E le assicurazioni date dall’ex-premier dopo il lungo colloquio con il suo antagonista non hanno rassicurato nessuno. Neppure le dichiarazioni dello stesso Renzi rese a Mentana nel corso del Tg7, hanno dissolto i dubbi su una sempre più probabile spaccatura dei democrat.

La questione è semplice: se al Colle non sale uno di loro, possibilmente di area liberal o moderata, gli ex-margheritini, post-democristiani, sono pronti a fare le valigie e lasciare Bersani e compagnia cantante al loro destino. Che il segretario, d’altra parte, voglia togliersi di torno Renzi, non  è un mistero: basta farsi un giro in Transatlantico ed infilarsi in un capannello di deputati piddini per capire l’aria che tira. E’ evidente che tutti i soggetti interessati non possono fare altro che smorzare, sopire, smentire perfino, ma la realtà non la può nascondere nessuno. Prima o poi qualcuno sbotta, come è capitato di ascoltare al sottoscritto, e viene fuori quello che tutti pensano, ma nessuno dice. E cioè che il processo di scissione è nei fatti. La conferma viene proprio dalla smentita di D’Alema, paradossalmente.

Chi ha imparato a decrittarne le esternazioni, sa come interpretarle. Ed il leader, per nulla acciaccato, è andato in missione presso Renzi proprio per significare che la linea Bersani è fallimentare, che ha sbagliato tutto fin dal primo momento e che le necessarie “larghe intese” per costituire un “governo di scopo” andavano proposte un minuto dopo l’esito elettorale. Sicché l’inedito (ed inimmaginabile asse, almeno fino a pochi giorni fa) D’Alema-Renzi punta ad emarginare il segretario che ha dovuto pure subire l’onta di una voce che lo voleva al Colle. Spriritosamente Bersani ha replicato che a lui interessano di più i “colli piacentini”. Non possiamo dargli torto.

Se comunque un tentativo di ricomposizione può ancora essere tentato, esso passa per la candidatura di un uomo come Franco Marini al Quirinale. Subordinate per una parte consistente dei democrat non ve ne sono. L’ex-presidente del Senato è in attesa. Ma attende anche l’ex-presidente della Camera, Luciano Violante, che ha benficiato di un endorsement in suo favore da Fabrizio Cicchitto.

Una partita, come si vede, tutta interna al Pd. Dalla quale non si è capito bene se il Pdl si rende conto di essere stato estromesso: da tutte le rose di nomi che circolano non ce n’è una che comprenda nomi “graditi” al centrodestra. Sicché viene da pensare che nessuno sarà eletto nelle prime tre votazioni. Ciò vuol dire l’impaludamento con relativa vietnamizzazione della guerra per il Quirinale, un po’ come accadde nel 1971 quando il Parlamento, sfinito dopo una lunga ed estenuante trattativa, alla viglia di Natale trovò la convergenza su Giovanni Leone eletto al ventitreesimo scrutinio: la procedura più lunga della storia repubblicana. Non è detto che non si replichi quarantadue anni dopo.

E il governo? Se dovesse prolungarsi la guerriglia elettorale quirinalizia, Monti resterà a Palazzo Chigi almeno fino alla metà di maggio, se non oltre. Nessun esecutivo dimissionario è restato in carica tanto tempo, senza legittimazione parlamentare o popolare. Un’altra anomalia italiana che s’iscrive nel corposo capitolo della fine dei partiti politici e della decadenza della politica stessa.

Nessuno sa dire come se ne uscirà. La prospettiva pià probabile, al punto in cui sono le cose, è il ritorno senza indugi alle elezioni. Tanto meglio se questo inutile Parlamento uscito dalle urne un mese e mezzo fa, viene sciolto quanto prima. Non abbiamo nessuna fiducia che la vigente legge elettorale garantisca una maggioranza stabile e coesa. Ma provarci è più decoroso che affondare nelle sabbie mobili. E non soltanto perché il mondo ci guarda. Ma perché guardandoci noi, non possiomo che rabbrividire di fronte a tanto scandaloso immobilismo dovuto all’incapacità di una classe politica che al “bene comune” ha anteposto la sua agonizzante sopravvivenza.

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