Torna l’Italia del pezzo di carta. Però falso

16 Mar 2013 11:38 - di Marcello De Angelis

Dal ’68 in poi, in Italia e non solo, si è aperto un dibattito nemmeno tanto infondato sulla validità concreta oltre che legale dei titoli di studio. Già il mondo intellettuale aveva, dai tempi di Schopenhauer, sostenuto che i titoli accademici e le cattedre erano più spesso il simbolo di un pensiero istituzionalizzato e quindi sterile, piuttosto che il riconoscimento di capacità innovative e meriti. In tutto il Ventesimo secolo sono stati decine gli scienziati, letterati, artisti che volontariamente si sono fermati uno o due esami prima del conseguimento della laurea o hanno rifiutato provocatoriamente i “pezzi di carta”. Con l’avvento del governo Monti l’Italia, tra i tanti danni, ha subito anche un avvilente salto indietro nel provincialismo della soggezione nei confronti dei titoli. Così, mentre “onorevole” diventava un titolo di demerito, “professore” tornava a avere l’aura quasi mistica che gli attribuivano i contadini analfabeti. E qualche genio ha anche a quel punto immaginato che non si potesse essere veramente onorevole se non si era anche un po’ professore. Perché la superiorità che fa del rappresentante un primus inter pares e quindi un superiore va pur sempre testimoniata. E sostituendo la forma alla sostanza siamo arrivati anche a questo. Proprio nell’epoca della laurea facile e della laurea breve impazzano le patacche. C’è chi dice di avere i titoli e non ce li ha, chi li ha comprati su e-bay, chi ce li ha ma li ha presi in America e qui non valgono e così via. Se i miei lontani studi di greco non mi ingannano un politico che fa il professore (o viceversa) si chiama “demagogo”. E un demagogo con la laurea falsa come si chiama?

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