Mantica: «Chavez ha affascinato anche a destra. Ma la sua rivoluzione è fallita»

6 Mar 2013 10:33 - di Antonella Ambrosioni

Il governo cubano ha proclamato due giorni di lutto nazionale per la morte del presidente venezuelano Hugo Chavez, definito «il figlio» politico di Fidel Castro, e “adottato’”dall’Avana durante la lunga malattia. Al di là delle bizzarre accuse del regime ai “nemici” di avergli inoculato il virus della malattia che lo ha ucciso, è tutta l’America Latina ad esprimere il proprio dolore e la propria solidarietà al Venezuela rimasto orfano del suo “comandante”. Un leder pieno di luci e di ombre, guardato sempre con interesse per la diversità delle ricette proposte rispetto agli altri leader degli stati sudamericani, tutti più o meno filoamericani e liberisti in economia. Anche nella cultura politica di destra la tradizione “bolivarista” del background politico di Chavez è stata guardata con favore in molti aspetti per il suo carattere di rivoluzione nazionalpopolare. «Tanti intellettuali autorevoli del nostro ambiente sono rimasti affascinati anche dal tipo di rivoluzione nazional-popolare che proponeva. Io personalmente no», commenta Alfredo Mantica, già sottosegretario agli Esteri, ed osservatore delle dinamiche storiche politiche in Africa e America Latina. In effetti, come Mantica, altre sensibilità all’interno della stessa area hanno stigmatizzato la sua amicizia con Fidel Castro e con il regime degli ayatollah iraniano. «Ha sicuramente segnato la storia dell’America Latina, cercando di trasformarla da “cortile” degli Usa qual era a percorrere una strada di autonomia. La sua formula economica è stata in realtà molto populista e demagogica», argomenta Mantica. È la ricetta di un Paese che «vive sostanzialmente di rendita per via dei giacimenti petroliferi. Un’economia basata sulla distribuzione dei proventi derivati dal petrolio – venduto anche agli Usa-  a favore di un sistema sociale molto forte nei confronti degli autoctoni e della popolazione poverissima. Gli italiani lì residenti, soprattutto quelli medio-borghesi non lo apprezzavano, per esempio», racconta Mantica.

In politica interna era riuscito a creare una dialettica anche con l’opposizione: «Si è sempre sottoposto a regolari elezioni e i suoi avversari si attestavano intorno a un 40%». Ma la sua politica estera di sinistra lo ha sempre reso quanto meno inaffidabile ai nostri occhi». Chavez ha sempre mantenuto contatti con i leader che all’Onu facevano parte del “Gruppo 77” «di cui facevano parte Tito e altri capi di Stato che si dichiaravano neutrali tra Usa e Urss al tempo della Guerra Fredda, ma che poi sono stati mantenuti a livello di rapporti e di reciprocità internazionale: una posizione che potremmo definire con una vecchia etichetta “terzomondista”». Non fu mai comunista, spiega Mantica, «il suo punto di riferimento era il socialismo “bolivarista”, in questo abbastanza isolato rispetto agli altri Stati latino-americani, soprattutto la Columbia e Brasile, tutti vicini agli Stati Uniti». Lascia comunque un paese diviso: se nei quartieri popolari di Caracas, dove era venerato come un santo, si sentono orfani è anche vero che come già avvenuto in altri casi dove il populismo ha fatto man bassa, è anche vero che i mali che Chávez denunciò ai tempi della sua ascesa rimangono intatti: il tasso di violenza criminale tra i più elevati al mondo, la corruzione tra le più endemiche del globo, l’economia dipendente ancor più dagli andirivieni dei prezzi petroliferi.

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