Si chiama Igor Attila il nuovo antieroe da romanzo

9 Dic 2012 0:05 - di Roberto Alfatti Appetiti

Un uno-due così fulminante poteva arrivare solo da un ex pugile. A distanza di pochi mesi dall’uscita di “Delitto alle Olimpiadi” (a ridosso della cerimonia inaugurale di Londra), è da poco arrivato in libreria “Il castigo di Attila” e il colpo del ko per il lettore è già previsto per il prossimo marzo, quando tornerà in azione, sempre per le edizioni E/O, l’ex campione di pugilato Igor Attila, capo di quello che la stampa aveva ampiamente liquidato come un vero e proprio «monumento all’inattività»: la sezione crimini sportivi della Questura di Roma, la più sgrangherata squadra di agenti mai conosciuta, creata anni prima sull’onda emotiva dell’ennessimo scandalo sul calcio scommesse e composta da ex atleti imbucati, poco raccomandabili ma affidabili, ognuno dei quali con una consistente dote di scheletri nell’armadio.
Prima ancora dei meriti investigativi, che non mancheranno, il valore aggiunto del personaggio creato da Paolo Foschi, giornalista del “Corriere della Sera” all’esordio letterario, è anzitutto quello di aver portato nel cielo plumbeo del noir all’italiana una salutare boccata d’humor e più di qualche uppercut al politicamente corretto. «Un po’ Bruce Lee, un po’ Clint Eastwood, bello e maledetto, a volte arrivava quasi a convincersi di essere il protagonista di un romanzo giallo». Quasi, perché Attila, discendente dell’ultimo zar di Russia, non è il flagello di Dio che il nome suggerirebbe e l’erba continua tranquillamente a crescere sui prati verdi su cui Igor corre per tenersi in forma e allontanare gli incubi del passato. Una clamorosa ingiustizia lo ha privato della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seoul del 1988 e l’incarico non esattamente operativo in Polizia – «ozio retribuito dallo Stato» – ne ha finito per minare l’autostima. Per smaltire frustrazioni, preoccupazioni amorose (Titta l’ha lasciato) e noia esistenziale, prende a pugni il punging ball appeso nel suo ufficio, strimpella la chitarra e appena può sfreccia per la capitale in sella alla sua moto. Fino a quando (nel primo romanzo) la giovane e bella ostacolista Marinella Paris, stella della squadra azzurra di atletica, viene assassinata alla vigilia della partenza per Londra e il corpo senza vita ritrovato sulla spiaggia di Ostia. A chi affidare il caso se non a un poliziotto con un prestigioso passato olimpionico? Igor Attila, però, si rivela una sorpresa anche per chi lo ha incaricato: scontroso, irriverente, insofferente a ogni burocrazia e allergico a quasivoglia pressione politica, è privo della benchè minima ambizione di carriera ma coltiva un personale quanto irriducibile senso dell’onore che lo porterà a indagare a fondo (con metodi poco ortodossi ma efficaci) sui rapporti tutt’altro che trasparenti tra sport e potere, ultrà e calciatori, camorristi e politici sin troppo disinvolti come il ministro dell’Interno, espressione di un partito che il lettore non farà fatica a riconoscere.
Lo fa ne “Il castigo di Attila”, quando il portiere della Roma, Rocco Graziano, viene trovato in fin di vita dopo il successo della Roma in Champions League. Cosa si nasconde dietro il mondo dorato del calcio? Come i tifosi della Roma capiranno all’istante, siamo nel mondo della fantasia ma non per questo Foschi rinuncia ad affondare la penna nell’attualità più estrema, restituendo tra una trama e l’altra un ritratto della Roma moderna ben più fedele (e feroce) di qualsi articolo di cronaca e politica. A partire dalla Roma «degli effluvi nauseabondi, speziata di coriandolo, cardamomo e paprika» dell’Esquilino, dove la squadra ha la sue sede, un dimesso appartamentino con il portiere dello stabile che viene dallo Sri Lanka, si chiama Amil e «indossa indifferentemente la maglia di Totti o quella di Klose a seconda di quale squadra romana abbia vinto l’ultimo derby. Perché lui fa il tifo per chi vince».
«La finestra sul caos multietnico di piazza Vittorio era spalancata. Igor Attila adorava quella pestilenziale miscela di smog e odori fritti di cucina orientale. Sognava di essere a Hong Kong. O magari a Chinatown. Impegnato in pericolose indagini per debellare la mafia cinese o per stroncare il traffico, come recitava la targa in ottone al portone, opaca e imbrattata ormai da parecchi mesi con un pennarello: “A cazzari, annate a lavora”. Nessuno si era preso la briga di cancellare quella scritta». Tutti, invece, dovrebbero prendersi la briga e di sicuro il piacere di seguire questo antieroe duro ma dal cuore tenero e i suoi stravaganti cavalieri nelle loro avventure.

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