Possiamo non dirci tutti cantoniani?

24 Ott 2012 20:13 - di

Duellando nell’arena, affascinando la folla per la forza e l’abilità, Spartaco contribuiva a consolidare il potere imperiale di Roma. Ma, quando in lui maturò la coscienza di sfruttato, quando trascinò, invece di uccidere, altri gladiatori alla rivolta, minò quel potere. Interpretato da Kirk Douglas, sceneggiato da Dalton Trumbo sulla base del romanzo di Howard Fast, “Spartaco” di Stanley Kubrick idealizzava il gladiatore trace come antagonista del proto-capitalista Licinio Crasso. In “Rollerball” di Norman Jewison, un gladiatore su pattini del 2018, Jonathan E. (James Caan), fa ombra alla globalizzazione proprio grazie al suo mito, originato dal rollerball, cruenta miscela di rugby, hockey e basket.
Spartaco e Jonathan E. prefigurano Eric Cantona. La sua fierezza di guerriero emerse già quando giocava (classe 1966, smise a soli 30 anni). Se segnava, poi si fermava e, col colletto alzato, guardava la folla osannante, aspettando l’abbraccio dei compagni. Espulso in una partita col Crystal Palace, mentre lasciava il terreno di gioco aveva praticato il kung-fu su uno spettatore che, dalla prima fila di posti (in Inghilterra non c’è griglia tra campo e spalti), insultava lui – pazienza – e la sua famiglia, il che era troppo. La reazione costò otto mesi di squalifica a Cantona, ma gli valse anche il rispetto di chi, prima, lo considerava solo un calciatore migliore di altri. E poi talora l’esclusione fa sentire la mancanza dell’escluso: dei cinque campionati di Cantona al Manchester United, quello fu l’unico che la squadra non vinse. Degli uomini di carattere si dice che l’abbiano brutto. Nel caso di Cantona ciò ha ispirato nel 1995 varie leggende. C’è uno spot pubblicitario, dove lui affronta, con campioni coevi, la Nazionale dell’Inferno. Suo – non di Maldini, non di Ronaldo – il tiro che sfonda (letteralmente) il satanico portiere. Da quel momento fu evidente che l’irascibile Cantona non si prendeva sul serio. Se ogni tifoso del Leeds patì per il suo passaggio al Manchester United, solo uno lasciò moglie e figli per seguire il suo campione. Poiché sotto la nuova maglia – rossa, col numero 7, la stessa di George Best un quarto di secolo prima – Cantona aveva lo stesso cuore, fu lui a trovare un lavoro a Manchester al temerario seguace, in modo che la famiglia potesse raggiungerlo. Barba curata, sopracciglia ben separate, voce calda, dizione perfetta si coordinano nel Cantona di oggi, dallo sguardo auto-ironico quando – interprete di se stesso ne “Il mio amico Eric” – mormora: “Non sono un uomo. Sono Cantona!”. E’ questo il film di Ken Loach, che Paul Laverty scrisse ispirandosi al tifoso di Leeds esule a Manchester.
Intanto Cantona è assurto a nemico n.1 delle banche. Un calciatore può diventare attore e restare, oltre che divo, cittadino e lanciare una provocazione. A fine 2010 disse: “Fare la rivoluzione è semplicissimo. Tre milioni di persone in piazza con bandiere e striscioni, tamburi e altro, si notano, ma non cambiano le cose. Se invece i tre milioni di persone ritirassero i depositi dalle banche, il sistema crollerebbe. Niente armi, niente sangue”. Allora ministro economico sotto la presidenza Sarkozy (oggi dirige il Fondo Monetario Internazionale), Christine Lagarde fu altera con Cantona, aumentando la già notevole antipatia popolare per lei e quelli come lei. Ma al pubblico italiano è sfuggito un dettaglio rivelatore di come l’ispirazione fosse venuta a Cantona. Nel suo proclama anti-usura, infatti, egli evocava – e lo ha precisato – il graffito lasciato dal reduce dell’Osa, Albert Spaggiari (reduce dell’Oas), il 17 luglio 1976 nel caveau della banca di Nizza, che aveva svaligiato: “Niente odio, niente violenza, niente armi”. Giusto dunque che il Grand Lyon Film Festival, diretto da Thierry Frémaux e dedicato ai classici restaurati, sabato scorso abbia affidato a Cantona la consegna del premio per la carriera a Ken Loach. L’anarchico di destra Cantona è salito sul palco per abbracciare il rivoluzionario di sinistra Loach, che Gualtiero Jacopetti, di opposte idee politiche, tanto ammirava per “Piovono pietre”. Sì, l’inglese Loach, che col “Vento che accarezza l’erba”, Palma d’oro a Cannes nel 2006, ha riconosciuto il diritto a insorgere contro i suoi connazionali agli irlandesi.
Il sodalizio tra Cantona e Loach risale al 2008. Derivò dalla proposta del primo al secondo di un film insieme. E fu la storia di un postino nei guai, che vi rimedia grazie ai consigli che immagina di ricevere da Cantona, nel ruolo di se stesso: insomma, “Il mio amico Eric”, presentato al Festival di Cannes del 2009, che al Festival di Lione del 2012 è stato ri-proiettato per oltre duemila spettatori – incluso il sindaco della città, Gérard Collomb, inclusi Christian De Sica e Laura Morante – prima che Cantona parlasse, esordendo: “Ringrazio i miei maestri di vita, Alex Ferguson (allenatore del Manchester United, ndr), e Ken Loach, che stasera è felice perché la sua squadra il Bath, ha vinto 4-3…”.
C’è un libretto raro, “La philosophie de Cantona” (Editions La belle bleu), apparso anche in versione inglese, che ne riassume il pensiero. Ma “Il mio amico Eric” offre una più suggestiva sintesi. Le partite? “Per la folla sono l’occasione per urlare, dimenticare la quotidianità, sfogarsi senza che ti arrestino, magari piangere. Capita perfino perfino che gli inglesi lì si bacino…”. E per lei che cos’erano? “Il momento della paura”. Paura, lei? “Sì. Paura che tutto questo finisse”. E come la superava? “Cercando di stupire gli altri, però dovevo prima stupire me”. Il momento più bello? “Non è stato un gol, ma un passaggio a Irwin, giocando contro il Tottenham. Sapevo che lui era un fulmine, bravo di sinistro e di destro. Ho toccato d’esterno e sorpreso tutti. Lui ha tirato in corsa, segnando, e io ho sentito il mio cuore volare”. E se Irwin avesse sbagliato? “Pazienza. Devi fidarti di un compagno, sempre”. Quel passaggio è stato un regalo per lui? “No, è stata un’offerta al Grande Dio del Calcio”. Cantona ha militato in squadre francesi e inglesi, ma il bisnonno paterno era sardo. E due mesi fa lui, silenziosamente, gli ha portato un fiore al cimitero di Ozieri. Possiamo non dirci cantoniani?

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