Il Paese bloccato da ideologie e lotta di classe

20 Apr 2012 20:40 - di

Sacrifici a gogò, risultati nulli (o quasi). Stavolta la colpa non è di Monti e neppure dei banchieri: alle stangate si aggiungono le scelte folli della Cgil (che va in piazza anche quando al suo seguito porta pochi iscritti) e del Pd (che continua a negare l’ossigeno alle imprese anche in questi tempi di magra). Vecchi steccati ideologici e vecchi metodi. Blocchiamo tutto, esasperiamo la gente, cavalchiamo il malcontento. Chi ha avuto la necessità di spostarsi per Roma non ha avuto difficoltà a rendersene conto: da una parte uno sciopero dei trasporti locali di Orsa e Cgil, dall’altra una manifestazione della stessa Cgil contro la riforma del mercato del lavoro. Il risultato: per lunghe ore è stato difficilissimo spostarsi (a complicare la situazione, la pioggia) e molte persone, impossibilitate a recarsi al lavoro, hanno fatto ricorso al vecchio trucco del certificato medico o magari si sono arrangiati con un giorno di riposo. E i costi chi li paga? Pantalone, non certo la Camusso. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha preso carta e penna e ha bollato come «ideologica» la protesta della Cgil. Affermazione a cui la segretaria generale di Corso d’Italia non ha tardato a rispondere che «un sindaco dovrebbe avere innanzitutto a cuore il benessere dei cittadini». Come se volere che la viabilità funzioni e che i romani possano raggiungere senza problemi il luogo di lavoro potesse equivalere al contrario.

La Cgil ancora in piazza
In tutto la mobilitazione della Cgil ha portato in piazza, a sfilare per le vie di Roma, qualche migliaio di persone ma i danni alla città sono stati esponenziali. Per Alemanno, visti i numeri,  il tutto si sarebbe potuto esaurire in un sit-in, se a Corso d’Italia non fossero legati ad «idee arcaiche e influenzate da pregiudizi ideologici» che portano a tradurre il tutto in «conflittualità sociale. Siamo, insomma, alla vecchia e contestata lotta di classe, sia pure riveduta e corretta rispetto a quanto succedeva nel secolo scorso, e «questo – sottolinea Alemanno –  è uno dei fattori che impediscono lo sviluppo del nostro Paese». Quindi una tagliente battuta rivolta alla Camusso: «Come sindaco ho il dovere di difendere i cittadini romani dagli effetti di una esasperata e spesso pretestuosa conflittualità. L’idea che per rendere visibili le proprie ragioni si debbano creare difficoltà e ostacoli alla vita della città è un’idea arcaica e influenzata da pregiudizi ideologici». E la Camusso? A queste argomentazioni non obietta. Dal palco parla di «insulti a chi manifesta» e di «divieti», argomentando che «un Paese democratico che vieta le manifestazioni si mette su una brutta china… Alemanno – ha affermato – dirà che non possiamo manifestare quando piove, quando c’è il sole e quando nevica…». Come dire, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il sindaco di Roma tutto ha detto tranne questo. Resta in ogni caso il fatto che in piazza non c’erano tantissime persone e che, come ha fatto notare Alemanno, «una manifestazione statica» sarebbe stata sufficiente a dare il senso della protesta, senza incidere negativamente sulla vita dei cittadini.

Italia ancora sotto attacco

La Cgil, in sostanza, parla una lingua diversa rispetto a quella dei cittadini e delle compatilibilità economiche. Da una parte i disagi ai romani, dall’altra la certezza espressa dalla Camusso che, sull’articolo 18, «la partita è ancora aperta». Affermazione che, ovviamente, spaventa i mercati e rimette in discussione ogni possibile percorso virtuoso dello spread (ieri è tornato sopra quota 400) e delle piazze borsistiche. Non è un caso che l’Italia sia tornata in questi giorni sotto l’attacco dei mercati. C’è la Cgil che rema contro, ma c’è anche il Pd, che ha chiesto e ottenuto modifiche peggiorative alla riforma del mercato del lavoro. Il presidente Napolitano è tornato così a essere preoccupato e ha tenuto con il premier Monti un caminetto sul futuro del nostro Paese e della crisi del debito. Sullo sfondo la conferma del nostro governo sul pareggio di bilancio a fine 2013, ma la certezza della stampa estera specializzata e perfino del Fmi che questo obiettivo non verrà centrato. Torna di moda il pessimismo e non per caso. Le aziende protestano perché una riforma che avrebbe dovuto liberalizzare l’accesso al lavoro lo ha invece «ingessato», aumentando anche i contributi a carico delle piccole e medie imprese. È diventato così evidente che invece di creare nuovi posti di lavoro si produrranno altri disoccupati, con buona pace della crescita di cui si parla tanto in queste settimane.

La miopia del Pd
Ma la Cgil non è sola nel tentativo di mandare gambe all’aria la riforma del mercato del lavoro. Anche il Pd si è adoperato in questo senso. Prima ha remato perché il provvedimento fosse adottato in forma di disegno di legge e non di decreto, poi ha preteso e ottenuto modifiche sul fronte della flessibilità in uscita e in entrata, che hanno annacquato di molto il rigore della riforma, quindi ha cantato vittoria sostenendo che così il provvedimento era stato migliorato. Ma le imprese, che si troveranno a gestire in prima persona le nuove norme, sono di parere opposto. Fanno sapere che in questo modo invece di abbassare i costi li si aumentano, paventano un rischio blocco delle assunzioni e mettono in conto la possibilità di ulteriori chiusure dopo che in soli tre mesi, dall’inizio dell’anno, ben 26mila aziende hanno tirato giù le saracinesche. Una valutazione delle cose che ha incontrato la comprensione del Pdl, attivo nella richiesta di nuove modifiche soprattutto sul versante della flessibilità in entrata, ma che vede la Fornero molto fredda e distaccata: modifiche sono possibili ma l’impalcatura resta quella che è. E la stampa internazionale, così come i mercati, ne prendono atto, ma non apprezzano. Il Financial Times e il Wall Street Journal che pure avevano magnificato Monti e il suo esecutivo, hanno parlato di «arte di arrendersi all’italiana» descrivendo il presidente del Consiglio prigioniero di lobby e partiti in grado di impedire che le riforme vadano a buon fine. Faremo la fine della Grecia? Il premier assicura di no, ma non perde occasione per evocarne lo spettro. Roma non è Atene. Ma una volta che la ricetta italiana ha escluso privatizzazioni, vendita di beni pubblici e abbattimento per questa strada dello stock di debito le carte in mano all’esecutivo restano le stesse. I greci hanno tagliato gli stipendi, da noi si sono aumentate  imposte dirette e indirette ottenendo lo stesso risultato: il reddito disponibile delle famiglie è diminuito e con esso la possibilità che i consumi tornino a salire. Certo, ha ragione Monti, in Grecia si sono uccise molte più persone, ma lì i problemi legati al debito sono esplosi prima. L’Italia ha tutto il tempo per recuperare. Cgil (e Pd) permettendo.

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