Nuovi documenti su Benito e Claretta

15 Mar 2012 20:20 - di

«La verità negli archivi del Pci è il sottotitolo della seconda edizione del libro di Franco Servello e Luciano Garibaldi Perché uccisero Mussolini e Claretta, pubblicato da Rubbettino. Libro di cui si parlerà martedì 20 marzo alle ore 17,30 a Milano (hotel Cavalieri, piazza Missori) nel corso del convegno “Le eredità del Novecento” organizzato dall’associazione culturale “Movm Carlo Bersani”, con gli interventi di Marcello Veneziani, Carlo e Benedetta Borsani. Dopo il successo della prima edizione – il cui sottotitolo era Oro e sangue a Dongo e che riportava alla ribalta la serie di crimini impuniti e mai estinti compiuti sulle rive del lago di Como all’indomani del 25 aprile ’45 – gli autori hanno deciso di tornare sull’argomento, grazie a nuovi e inediti documenti rintracciati all’Archivio di Stato e presso l’Archivio Storico del Tribunale Supremo Militare.
Va detto anzitutto che gli autori sono due giornalisti e storici di lungo corso. Servello, senatore per otto legislature, prima nel Msi e poi in An, giornalista dal 1945, ha dedicato la vita alla ricerca della verità, e al raggiungimento della giustizia, sui fatti di Dongo. E ciò da quel 14 marzo 1947 allorché, a Milano, una squadra di killer della «Volante Rossa», braccio armato del Pci, assassinò suo zio Franco De Agazio, fondatore e direttore del Meridiano d’Italia, che, con le sue indagini e le sue inchieste, stava mettendo a rischio la struttura stessa del Partito comunista. Alla morte dello zio, Servello ne prese il posto alla direzione del battagliero settimanale e da allora non ha mai smesso di perseguire quell’obiettivo così rischioso. Quanto a Luciano Garibaldi, sono ormai vent’anni che porta avanti le sue ricerche storiche (e i suoi libri) sui misteri di Dongo, grazie a cui è stato possibile smontare definitivamente la vulgata sulla morte di Mussolini e di Claretta Petacci: non «fucilati» il pomeriggio del 28 aprile davanti a Villa Belmonte, ma assassinati la mattina di quel giorno sotto casa De Maria, a Bonzanigo.
Una parte del libro di Servello e Garibaldi riporta alla luce le principali inchieste pubblicate sul Meridiano d’Italia nei suoi due primi anni di vita. In questa seconda edizione vengono rivelati scottanti documenti che provano gli accordi sotterranei intercorsi tra Dc e Pci per mettere una pietra tombale sui fatti di Dongo. L’ispettore generale di Ps Ciro Verdiani era stato incaricato fin dal maggio 1945 di indagare a fondo sulla scomparsa dei valori della colonna Mussolini e sulla serie di sparizioni di partigiani comunisti, a cominciare dal «capitano Neri» (Luigi Canali) e dalla partigiana «Gianna» (Giuseppina Tuissi). Verdiani, uno dei poliziotti più tosti di tutta la recente storia italiana (lo ritroveremo in prima fila in Sicilia per le vicende di Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta) portò a termine con esemplare efficienza il suo mandato e, già in data 25 dicembre 1945, fu in grado di redigere, per il governo De Gasperi, un «rapporto riservatissimo», qui pubblicato per la prima volta, nel quale si poteva leggere che il tesoro di Dongo era sicuramente finito nelle mani del Pci di Como e poi di Milano; che il Pci stava operando per nascondere e sottrarre alla legge gli autori della rapina, e degli omicidi che ad essa avevano fatto seguito; che l’organizzatore di tutta la faccenda era addirittura Luigi Longo, il numero due del Pci. Ebbene, quel rapporto fu rapidamente «archiviato» e il suo autore, che ormai il suo dovere lo aveva fatto, passò a nuovi incarichi.
Ben diversa la sorte toccata al giudice militare, generale Leone Zingales. Incaricato dalla Procura Generale Militare di fare chiarezza sulla serie di omicidi iniziati con la soppressione di «Neri» e della «Gianna», si era subito messo all’opera e, in breve tempo, avendo raccolto indizi ritenuti più che sufficienti, aveva emesso una serie di mandati di cattura nei confronti di partigiani del Comasco ritenuti responsabili sia della sottrazione del «tesoro» sia della catena di omicidi.
Evidentemente le iniziative di Zingales avevano creato non pochi problemi politici al governo De Gasperi (governo di cui facevano parte il Pci e il Psi, allora strettamente legati nel patto social-comunista). Lo dimostra una lettera «riservatissima – personale» inviata dal procuratore generale militare Borsari al ministro della Difesa Luigi Gasparotto, ritrovata e resa pubblica da Servello e Garibaldi. Con quella lettera, senza alcuna motivazione, Zingales veniva rimosso dal suo incarico (per questa ingiustizia ed ingratitudine, resterà amareggiato per tutta la vita). Fatto fuori l’unico funzionario, capace, per onestà e coraggio, di far luce sugli orrori di Dongo e di Como, da quel giorno ebbe inizio quello che gli autori definiscono «un inverecondo valzer di passaggi di competenze»: prima Como, poi Milano, poi Padova, dove tutto si arenò dieci anni dopo, e si concluse con la colossale beffa del processo «rinviato a nuovo ruolo» e mai più riaperto.
Dall’uscita nelle librerie della prima edizione sono passati ormai quasi due anni, senza che l’autorità giudiziaria abbia ritenuto di riaprire le indagini su gravissimi reati – come appunto l’assassinio premeditato di tante persone innocenti – per i quali non vige alcuna prescrizione. In proposito, gli autori documentano anche come l’uccisione di Mussolini, di Claretta Petacci e dei 15 fucilati sulla piazza di Dongo non fu ordinata né dal Cln né dal generale Cadorna, così come essa non fu l’esecuzione di una sentenza peraltro mai pronunciata. E meno che mai un «atto di guerra», dal momento che i «giustiziati» si erano arresi senza opporre resistenza armata.
Si riapre così una vexata quaestio che sembrava essersi conclusa con la sentenza del Gip di Como dottoressa Cremona, emessa nel 2007 in seguito alla denuncia contro ignoti per assassinio del nonno, presentata dal nipote del Duce Guido Mussolini. La sentenza dichiarò che si era trattato di un «atto di guerra». La Cassazione si allineò. Da qui la conclusione del libro di Servello e Garibaldi: «Lo Stato italiano continua a tacere. E se ci si rivolgesse alla Corte di Giustizia dell’Aja?».

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