Alberto e Stefano, caduti un anno dopo la strage di Roma

10 Gen 2012 20:01 - di

Quella tragedia del gennaio 1978, la strage di Acca Larenzia, conobbe pure una sorta di replica. Il fattaccio – sarebbe meglio dire “i” fattacci – accaddero sempre nella capitale, precisamente un anno dopo il massacro del Tuscolano, ed entrambi si verificarono la sera del 10 gennaio 1979. Trentatré anni orsono, quindi.
E anche quella volta, quasi a confermare la sconcertante somiglianza col dramma avvenuto 365 giorni prima, la vicenda di sangue si svolse in due tempi. Il primo ebbe come teatro la zona di Centocelle dove, proprio per celebrare Acca Larenzia, era stato indetto un corteo regolarmente vietato dalla questura. Il fatto è che Centocelle all’epoca era una roccaforte rossa piantata come un coltello nel cuore della periferia sud est di Roma e la scelta di “violarla” si rivelerà gravida di conseguenze dolorose. Il copione era lo stesso di sempre. Comunisti liberi di scorrazzare dappertutto per vie e piazze, indisturbati e tutelati dai poteri forti. Militanti del Msi e del FdG invece, ostracizzati, criminalizzati e costretti a contendere con le unghie e coi denti non solo il territorio, ma lo stesso diritto a esistere. Insomma, o ci si imparava a difendere o si rischiava di sparire dall’agone politico. E quello che s’andava profilando era proprio un brutto giorno. Dopo ciò che era avvenuto l’anno prima, con tre cadaveri sul selciato, la rabbia del popolo missino stavolta s’andava a coagulare contro la sezione della Dc di via dei Narcisi. Era la Dc, infatti, il partito simbolo del potere vile degli anni di piombo. Senonché – l’odio è un cattivo consigliere – malgrado la presenza di alcuni attivisti anziani appositamente mobilitati con l’incarico di frenare l’ardore dei giovani, l’assalto alla sezione Dc avvenne in modo sconsiderato. E alle prime molotov lanciate contro la porta del circolo, la reazione della polizia scattò inesorabile.
Con la carica dei celerini iniziava così il primo atto della tragedia. A interpretarlo – proprio come era avvenuto l’anno addietro ad Acca Larenzia – era un rappresentante dell’ordine costituito. Un carabiniere l’anno prima, un agente di pubblica sicurezza in borghese adesso. L’uomo, perdendo il controllo, iniziò a inseguire uno studente diciassettenne del tutto indifeso, Alberto Giaquinto, finendo col piantargli una pallottola nella nuca. Roba da repubblica sudamericana. Il proiettile esploso dell’agente colpiva il ragazzo mentre, voltatosi di spalle, stava fuggendo. Un colpo inutile, dunque, mirato a freddare chi in quel momento non poteva costituire alcun pericolo. Alberto rimase agonizzante e senza soccorso per venti minuti. I poliziotti eressero un’invalicabile barriera umana intorno al suo corpo in preda alle convulsioni, impedendo a chiunque di avvicinarsi a prestargli soccorso. Alla fine venne trasportato al San Giovanni, ma era già in stato di coma. Operato d’urgenza, morirà prima delle nove. Nel frattempo l’abitazione dei familiari veniva messa a soqquadro in cerca di chissà cosa. Nei giorni seguenti i giornali di sinistra scatenarono una ignobile campagna di odio contro il giovane, accusato di tutte le nefandezze possibili. Si arrivò persino a sostenere il ritrovamento di alcuni proiettili nelle sue tasche, circostanza non vera, mentre Lotta continua dipinse lo studente come un mostro dedito alla delinquenza e alla pornografia. Alberto studiava al “Peano”, un liceo scientifico dalle parti dell’Eur e aveva dovuto abbandonare il “Cannizzaro” per questioni d’incolumità fisica: da solo non riusciva più a tenere testa al preponderante numero di compagni. Ma lui non era certo tipo da stare lì a recriminare. Lo scontro con i rossi non gli faceva paura, e, intraprendente com’era, non intendeva per nulla restarsene inerte. Ma la morte non arrivò per mano dei rossi. Il poliziotto che lo colpì fu condannato a una lieve pena.
Pochi minuti dopo, dall’altra parte della città, a via Rovano, nel quartiere di Talenti, e precisamente presso il bar “Urbano”, andava in scena il secondo atto del dramma. Era proprio davanti a questo locale, infatti, che tre amici – Alessandro Donatone, Maurizio Battaglia e Stefano Cecchetti – stavano seduti a un tavolino intenti a bere e a chiacchierare in tutta tranquillità. A un certo momento una Mini Minor verde metallizzato con il tettino bianco e una targa stranissima s’accostò a fari spenti al marciapiede. A bordo dell’auto, alcuni individui dal volto coperto dal passamontagna all’improvviso tirarono fuori l’artiglieria, e, abbassati i finestrini, andarono a  scatenare una tempesta di fuoco sui tre. Una gragnuola di proiettili calibro 7,65 e 9 lungo, per la precisione. Alessandro Donatone e Maurizio Battaglia, feriti di striscio, riuscirono a cavarsela per un pelo. Ma apparve subito chiaro che per Stefano Cecchetti c’era ben poco da fare. Infatti, colpito dritto al ventre, il povero ragazzo morì in ospedale non più di sei ore dopo. Era un fascista Stefano? Non si sa. La sola cosa certa era che studiava al liceo “Archimede”, non aveva trascorsi politici e amava la musica leggera. Ma il giovane aveva commesso un errore imperdonabile. In un quartiere ad alta presenza rossa aveva osato sfoggiare un paio di stivali Camperos, per certi subumani affetti da odio ideologico simbolo evidente e sicuro di militanza fascista. Furono i “Compagni Organizzati per il Comunismo” a rivendicare con orgoglio demenziale l’attentato. E naturalmente nessuno s’è mai particolarmente impegnato a fare luce su questa vicenda. A Roma, durante gli anni Settanta, anche la scelta del bar – e del capo d’abbigliamento sbagliato – poteva rappresentare il discrimine tra la vita e la morte.

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