“Goodbye and Good luck”: gli americani abbandonano l’Iraq

15 Dic 2011 20:13 - di

Il giornale giordano al Arab ha aperto ieri con la notizia del ritiro delle truppe americane dall’Iraq titolando: «Gli Stati Uniti chiudono il sipario sulla loro occupazione sanguinaria dell’Iraq». Questo per dire con quali sentimenti è stato visto per nove anni l’intervento occidentale nel Paese dei Babilonesi. In effetti però l’operazione partì non con le migliori intenzioni: Goerge BUsh la lanciò nel marzo del 2003 col motto “shock and awe”, ossia “colpisci e terrorizza”, che non è il miglior viatico di un intervento umanitario che si rispetti.
La bandiera statunitense è stata ammainata ieri a Baghdad in una cerimonia in tono minore e piuttosto mesta, per segnare la fine della guerra durata quasi nove anni. Durante la cerimonia, a cui hanno partecipato il ministro della Difesa, Leon Panetta, il generale Lloyd Austin, comandante delle forze usa in Iraq e l’ambasciatore americano, James Jeffrey, insieme al capo di Stato maggiore iracheno, il generale Babaker Zebari, vi è stato il momento fortemente simbolico in cui la bandiera americana è stata «ritirata» e quindi piegata e conservata dai soldati Usa per riportarla in patria. Dopo che anche la bandiera bianca dell’United States Force-Iraq è stata ripiegata con cura, Panetta ha pronunciato un discorso con cui ha ufficialmente chiuso la missione americana nel Paese, tributando un riconoscimento all’Iraq «indipendente, libero e sovrano» e ha ufficialmente chiuso la missione americana.
«Nessuna parola, nessuna cerimonia può offrire un pieno tributo ai sacrifici fatti per arrivare a questo giorno», ha detto il capo del Pentagono. «Dopo che è stato molto sangue dagli iracheni e dagli americani, l’obiettivo di avere un Iraq che si possa governare e difendere da solo è diventata una realtà – ha detto Panetta all’aeroporto internazionale di Baghdad – il costo è stato alto, in termini di vite umane e risorse per gli Stati Uniti e per il popolo iracheno, ma queste vite non si sono perse invano».
Data e sede della cerimonia sono stati tenute segrete fino alla fine per evitare possibili attacchi da parte dei ribelli.
Durante i nove anni di guerra 4500 militari americani caduti, 32mila sono stati feriti e sono stati spesi oltre 800 miliardi di dollari. Si calcola che oltre 150mila iracheni, tra civili e combattenti, abbiano perso la vita.
Gli ultimi 4.000 soldati americani ancora in Iraq lasceranno il Paese entro il 31 dicembre, in base ad un accordo tra Washington e Baghdad del 2008. Al momento di maggiore presenza, il numero dei militari Usa nel Paese era arrivato a 170.000. Roba da Vietnam. Gli americani lasciano un Iraq ancora in preda a violenze politiche e interconfessionali, con attentati mortali quotidiani. Proprio poche ore fa due coniugi cristiani sono stati uccisi a Mosul, nel nord dell’Iraq, teatro da tempo di una lunga striscia di sangue contro la minoranza religiosa.
E intanto migliaia di abitanti di Falluja, feudo sunnita in Iraq che fu il primo bastione della resistenza contro la presenza americana in Iraq, hanno dato vita a una manifestazione di giubilo per il ritiro completo delle forze Usa dal Paese. I dimostranti sventolavano bandiere irachene e inneggiavano alla «resistenza», secondo Mohammad Fathi Hantoush, portavoce della provincia di Anbar, dove è situata la città. «I partecipanti – ha aggiunto il portavoce – hanno tenuto preghiere congiunte sunnite-sciite con delegazioni arrivate dalle province meridionali del Paese e hanno posto corone di fiori nei cinque cimiteri dei martiri dove sono sepolti i cittadini di Falluja morti durante la resistenza all’occupazione americana». Un’offensiva lanciata da 15.000 soldati americani nel 2004 contro gli insorti a Falluja si trasformò in una delle più dure battaglie per l’esercito americano dopo la guerra del Vietnam e portò alla morte di almeno 2.000 iracheni e 140 militari statunitensi.
Adesso, dicono molti analisti, iniziano i veri problemi. Vi sono diversi scenari, da quello del riaccendersi della guerra civle tra sunniti e sciti e magari anche curdi, a quello di una spartizione in tre parti dell’Iraq, a quello evocato dalla rivista The Middle East, che parla senza mezzi termini di «consegna dell’Iraq all’Iran». Ma tutto ruota intorno alle risorse petrolifere.
Petrolio e gas naturale, l’Iraq ne è ricchissimo. Però le endemiche rivalità settarie e il problema della sicurezza minano seriamente gli sforzi del governo di al Maliki per assicurare un futuro economico alla popolazione dopo gli anni di cupa sofferenza. Oggi, dopo aver spinto la sua produzione di petrolio al massimo livello in un decennio, l’Iraq si sta muovendo per sfruttare anche le sue vaste riserve di gas. Il ministero del Petrolio ha invitato circa 46 compagnie straniere a fare offerte in asta fissata per il 25 gennaio prossimo, con l’attenzione questa volta ad accelerare lo sfruttamento delle riserve di gas del Paese, il decimo più grande del mondo. Tra le società interessate ExxonMobil e Chevron degli Stati Uniti, la British Petroleum, Total della Francia e la russa Lukoil. Inoltre l’olandese Shell e la giapponese Mitsubishi Corporation, con un accordo firmato nel mese di luglio, insieme alla compagnia statale del gas del Sud, formeranno la nuova Azienda del Gas Bassora. In termini di risorse energetiche, infatti, l’Iraq è ancora inesplorato. In aggiunta alle riserve petrolifere accertate di 143,1 miliardi di barili, analisti del settore dicono che il Paese ne potrebbe contenere altrettanti in siti non ancora sfruttati. Questo perché finora è stato facilissimo estrarre il petrolio, a causa di favorevoli condizioni geologiche che consentono bassi costi di produzione. Pertanto in passato non si fecero tanti sforzi per esplorare le riserve non sfruttate.
Un altro problema potrebbe essere rappresentato dai curdi, presenti al confine con la Turchia, che da tempo rivendicano autonomia quando non indipendenza. I curdi rappresentano il 23 per cento delle etnie del Paese. Oggi L’etnia ha “fatto pace” anche con Ankara, grazie al premier Tayyp Recep Erdogan e, una volta estroneìmessi i terroristi del Pkk, il partito che fu di Ocalan, stanno progettando un futuro condiviso con le altre minoranze nei Paesi vicini, come ad esempio l’Ira, dove i curdi sono il 7 per cento. Anche se oggi i curdi sono rappresentati da una forte pattuglia al parlamento di Baghdad, essi preferirebbero una regione sovrana che insista su ognuno dei Paesi in cui la loro etnia è frammentata, ossia Iraq, Iran, Turchia, Siria e Armenia.

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