Ecco l’Uomo del monito: Napolitano riscopre Einaudi per lodare il pupillo Mario

29 Dic 2011 20:44 - di

Carta canta, con la lunga lettera al direttore della rivista Reset, Giancarlo Bosetti (che lo aveva sollecitato a una riflessione sull’Italia a 50 anni dalla morte di Einaudi), Giorgio Napolitano conferma la sua inclinazione al monito, la sua antica passione per il consiglio saggio distillato in mezzo a citazioni auree e dissertazioni politologiche.
Un vezzo che gli viene da lontano e che oggi torna utile come passepartout per l’europrofessore fortissimamente voluto al timone del governo per archiviare il berlusconismo e tornare a sedersi nei salotti dell’Europa che conta (parole di Napolitano a pochi giorni dall’incarico montiano). «Serve più coraggio», ammonisce nella sua ricostruzione del lungo dopoguerra affrettandosi a posizionare l’Europa di fronte a un bivo storico. «Dopo il ‘45 e l’89  – spiega – siamo ora giunti a un terzo appuntamento con la storia: quello del calare il nostro processo di integrazione nel contesto di una fase critica della globalizzazione e questa volta le leadership europee appaiono in grande affanno a raccogliere la sfida». È uno dei passaggi più critici della lectio magistralis anticipata ieri da Repubblica nella quale l’uomo del Colle riflette sulla domanda dello storico inglese Tony Judt sui giganti di un tempo e i pigmei di oggi nella politica europea. Eccolo, il primo assist al pupillo Mario: quei partner che solo poche settimane fa erano saldi pilastri ai quali ancorarsi per evitare il default, fulgidi esempi di sobrietà al cospetto del Cavaliere delle gaffe, oggi diventano opache comparse di fronte al gigante Monti. Nella «crisi incalzante dell’euro», scrive Napolitano, «le leadership europee oggi appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica». Per le forze riformiste, insiste, è tempo di perseguire «nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare». Sfida, coraggio, ottimismo sono le parole chiave del capo dello Stato in queste ore alle prese con il messaggio di fine anno, certamente ringalluzzito dagli onori di Famiglia Cristiana che lo ha scelto come “italiano dell’anno” perché «l’unico a saper interpretare con coerenza e lungimiranza l’aspirazione profonda di tutti gli italiani».
Con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato comune – prosegue l’articolessa  dell’Uomo del monito – furono riconosciuti e assunti dall’Italia i fondamenti dell’economia di mercato, i principi della libera circolazione, le regole della concorrenza. «Ora che a minare la sostenibilità di quella grande conquista che è stata la creazione dell’euro concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l’Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi». Che tradotto è una plateale benedizione alle misure anticrisi del governo tecnico dei ragionieri guidati dall’europrofessore. Dopo aver salutato le prime mosse di Monti come il ritorno dell’Italia tra i grandi, adesso arriva il lasciapassare alle manovre lacrime e sangue nel nome del riscatto nazionale contro le resistenze corporative e assistenzialistiche «ancora pesanti in Italia». Così il salasso richiesto agli italiani, che firmato dal governo Berlusconi avrebbe meritato la più dura delle disobbedienze civili, diventa il necessario e “nobile” pegno da pagare per la riscossa nazionale. Tanto nobile da scomodare un padre della patria come Einaudi, che «può suggerire stimoli fecondi». E giù pesanti affondi contro «le degenerazioni parassitarie del “welfare all’italiana”» per rifondare «motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l’epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all’Italia».
Vi ricordate le picconate di Cossiga, le rampognate solenni di Ciampi, i pellegrinaggi del madonnaro Scalfaro? Ogni capo dello Stato ha il suo stile, il suo passo, i suoi personali “caminetti” e Giorgio Napolitano non smentisce la tradizione quirinalizia. Che reinterpreta a suo modo. Super partes finché la situazione lo consente, pronto a scendere in pista con le sue pedine quando il pressing si fa troppo pesante e serve il tocco miracolistico. L’Uomo del Colle non ha esitato, per il bene della comunità nazionale (s’intende) e per combattere la rissosità della politica italiana (s’intende) a trasformarsi nell’Uomo del Monti, paladino dell’esecutivo di salvezza nazionale, per evitare le urne e riscattare la nazione dalle paludi berlusconiane.
Monti ringrazia commosso, «condivido le considerazioni del presidente della Repubblica. Condivido il fatto che abbiamo bisogno di un’Europa che sia fondata sulla disciplina di bilancio pubblico ma non solo. Nel mio lungo impegno in Europa sono sempre stato tra i più rigorosi sia nella disciplina di bilancio che su quella della concorrenza…».  Non fa una piega, il gioco delle parti è perfetto, forse solo un po’ troppo scoperto. Per un Monti che si sente l’uomo della Provvidenza («eravamo arrivati sull’orlo del burrone senza parapetto e con delle forze che ci spingevano alle spalle») c’è un Napolitano che si culla nella storia patria per dare nuova linfa alla sua creatura.
Come per le sentenze dei giudici nessuno si azzarda a commentare, tranne Fabrizio Cicchitto per il quale «la riflessione sviluppata dal presidente Napolitano partendo dagli anni Quaranta e Cinquanta apre un dibattito di fondo che evidentemente richiede contributi altrettanto approfonditi». Tuttavia, dice il presidente dei parlamentari del Pdl, «non si può sottacere che la ragione di fondo della distanza negli anni Quaranta e Cinquanta fra Einaudi e la sinistra sta nel fatto che in quest’ultima il riformismo era assolutamente minoritario e che largamente prevalente nel Pci era lo stalinismo che, anche nella sofisticata versione togliattiana, nel suo nocciolo duro era distante sia dal liberalismo sia dal socialismo democratico e ciò pesò, e non poco, nella nascita dell’Europa». Ma questa è un’altra storia. Anzi, sempre la stessa.

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