Berlusconi al Quirinale: col sì condizionato a Monti

12 Nov 2011 21:09 - di

Alle 13.45 Silvio Berlusconi e Mario Monti si sono visti a pranzo, a Palazzo Chigi. Due ore di incontro tra il premier uscente e il premier in pectore, alla presenza di Angelino Alfano e Gianni Letta, che il Pdl vuole nel governo. L’appoggio del partito al neo-senatore a vita, poi arrivato in serata, era a quel punto ancora in forse. Quello del Carroccio era stato escluso, di nuovo, dai suoi vertici.

Per non aggiungere crisi a crisi
Benché il finale con dimissioni fosse già scritto quella di ieri è stata comunque una giornata frenetica, alla ricerca – forse all’inseguimento – di una soluzione che evitasse di aggiungere crisi a crisi. In mattinata molti nodi restavano da sciogliere: il posizionamento della Lega, la fiducia del Pdl a un governo Monti, i modi in cui si sarebbe potuta esprimere. Anche di questo avrebbero parlato i due “premier”, con la richiesta da parte del Cavaliere di garanzie su un programma dettagliato nei contenuti e nella durata. Così, il giorno più lungo della Seconda Repubblica si è consumato in una girandola di incontri, chiacchierate informali, assisi di partiti già convocate per trovare la quadratura del cerchio.

Una girandola di incontri
Prima e dopo il pranzo, tanto Berlusconi quanto Monti sono entrati e usciti da colloqui preparatori per quello che sarebbe successo in serata. A Palazzo Giustiniani, dove ha l’ufficio il professore della Bocconi, sono arrivati prima Mario Draghi e poi Pierluigi Bersani ed Enrico Letta. Tra Palazzo Grazioli, Palazzo Chigi e Montecitorio, Berlusconi ha continuato ad ascoltare gli esponenti della maggioranza. Renato Brunetta è stato il primo a varcare la soglia della residenza privata del Cavaliere. Poi alla Camera è stata la volta di un vertice di maggioranza e del colloquio con Roberto Maroni e Roberto Calderoli. Era soprattutto su loro che bisognava lavorare, perché la linea leghista restava quella del «o governo di centrodestra o opposizione», desiderando però prima di tutto le elezioni. Più tardi, dopo il sì alla legge di stabilità e al bilancio, Umberto Bossi l’ha ribadito: «Con Monti andremo all’opposizione». Ma il Senatùr ha fatto anche qualcosa di più, ha messo in dubbio il suo rapporto con il Cavaliere: «Rompere con Berlusconi? Vedremo».

La folla e il capopopolo
Risuonava ancora l’appello di Giorgio Napolitano alla responsabilità di tutti. Con un messaggio al congresso della Destra a Torino, nella mattina il Capo dello Stato aveva parlato del «grave momento di crisi finanziaria ed economica» come di «una seria sfida per la coesione sociale del Paese potendo alimentare la tentazione di anteporre al bene comune il proprio esclusivo interesse particolare o di gruppo, o anche di cercare facili vie di uscita e illusori e poco lungimiranti localismi». Fuori dai palazzi, invece, iniziavano a risuonare le grida dei manifestanti che, assiepati un po’ ovunque – da Palazzo Grazioli a Palazzo Chigi, fino al Quirinale – mandavano in tilt il traffico di Roma, alzando cori contrapposti per esortare Berlusconi ad andare avanti o, molti di più, per invitarlo a farsi un giro a San Vittore. «Oggi è il giorno della liberazione nazionale di ogni cittadino da un governo piduista», diceva Antonio Di Pietro. In piazza, davanti a Palazzo Chigi, annunciava che «l’Idv festeggia la caduta del regime», solleticando pulsioni e aspettative di una folla che non ha risparmiato nessuno del governo e della maggioranza. Di Pietro è andato a prendersi gli applausi, e gli applausi non gli sono mancati. Eppure lui, più di altri, anche in queste ore cruciali, ha mostrato il volto di quella politica opportunistica da cui lo stesso Napolitano metteva in guardia: i titoli della mattina riportavano delle sue aperture a un possibile governo Monti; i lanci di agenzia della giornata si erano trasformati in un entusiastico appoggio al professore; ma fino a ieri il leader dell’Idv lanciava proclami sull’ineludibilità del voto. Qualcuno gliene ha chiesto conto anche in piazza: «Ma davvero appoggia Monti?», è stata la domanda di un manifestante.

Governo tecnico a scadenza

Il vero nodo da sciogliere, però, per tutta la giornata è stato cosa avrebbe deciso il Pdl. «Le posizioni sul terreno – spiegava nella mattina Ignazio La Russa – sono due: è meglio un governo legittimato dal popolo e quindi si può votare nel giro di due e tre mesi, oppure un governo con una maggioranza più larga che da subito affronti i problemi posti dall’Europa e dai mercati? Io – ha chiarito – sono per l’ipotesi che il governo si fa sulla scorta del voto popolare, ma questo è un momento di emergenza e può darsi che le due posizioni possono incrociarsi». Il problema da chiarire era: come? Fra le ipotesi prevalenti c’era un sì condizionato a un governo Monti di soli tecnici, con la missione esclusiva di approvare l’agenda europea per poi cedere immediatamente il passo alle urne. Si è parlato anche di un documento, che i latori di rumors hanno subito ribattezzato come «degli ex An», ignorando il fatto che a impostarlo, insieme a La Russa, Giorgia Meloni e Maurizio Gasparri, c’erano anche Renato Brunetta e Maurizio Sacconi. Anche dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che ieri, da dirigente del Pdl, ha partecipato ai vertici di maggioranza alla Camera ha spiegato che il Pdl «chiede come garanzia un governo tecnico con un programma molto limitato», nel quale se qualche politico ci deve essere può essere «magari una presenza simbolica». «Si tratta di fare un gesto di responsabilità», ha aggiunto il primo cittadino della Capitale, rimandando poi alla riunione dell’ufficio di presidenza.

L’ufficio di presidenza e poi il Colle

Era quello, del resto, il momento più atteso di tutta la giornata. Lì il Pdl avrebbe preso la sua decisione definitiva, da lì si sarebbe scatenato l’effetto domino sulle scelte delle altre forze politiche, Lega in testa. Alla fine il Pdl ha deciso, adottando quella linea prevalente che era stata esposta qualche ora prima: sì a Monti, ma con una fiducia condizionata alla verifica del programma, che deve ricalcare la lettera inviata alla Ue, niente patrimoniale, niente legge elettorale e una ferma richiesta di Letta nel governo. Poi Berlusconi è andato al Colle. I ministri li aveva già salutati nel consiglio che si era tenuto nel pomeriggio, per l’ultimo atto del suo governo: il varo di quella legge di stabilità da cui ci si aspetta una svolta rispetto alla crisi.

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