«Licenziamenti facili?   Macché, c’è la giusta causa»

6 Set 2011 20:22 - di

«È una rivoluzione, ma in positivo. L’occupazione ne uscirà favorita e i licenziamenti senza giusta causa restano illegittimi». Silvano Moffa, presidente della commissione Lavoro della Camera, parla del “famigerato” articolo 8, quello che è stato al centro di tanta parte della protesta di ieri di Cgil e partiti della sinistra. «Qui  – aggiunge – bisogna capire che le regole del nostro mercato del lavoro sono in ritardo, che servono riforme e che questa norma va in quella direzione».

Ma licenziare diventerà o no più facile?

Cambieranno i meccanismi, ma tutte le norme costituzionali, i vincoli comunitari e le convenzioni internazionali resteranno validi. Per questi non vi può essere alcuna deroga. Una donna che sta per sposarsi o è in maternità, tanto per fare un esempio, continuerà ad avere tutte le dovute tutele. La verità è che la norma nasce per favorire l’occupazione, e non per colpirla come viene detto.

Però, viene detto. Qualche appiglio ci sarà…

Si attaccano al fatto che si affida alle parti sociali, quindi agli accordi sindacali, la possibilità di stabilire anche i criteri per la cessazione del rapporto di lavoro. Ma si tratta di un patto preventivo, fatto con il benestare dei sindacati più rappresentativi e legato a fattori precisi: le deroghe al contratto nazionale sono ammissibili solo in ragione della produttività e dell’occupazione.

E questo come aiuta i lavoratori?

Le faccio un esempio pratico. Prendiamo un call center, che in genere ha lavoratori a progetto. Può decidere di convertirli in dipendenti attraverso un patto con il sindacato, che stabilisce in anticipo cosa accade se l’azienda non è più in grado di produrre. In questo modo si può decidere prima, per esempio, quale tipo di risarcimento spetta al lavoratore che viene licenziato.

Appunto, non significa facilitare i licenziamenti?

No, significa che un lavoratore destinato a rimanere a progetto ha la possibilità di diventare dipendente e di avere le tutele del caso. Il contratto aziendale o territoriale si basa su criteri che fanno salvo il principio dell’illegittimità del licenziamento senza giusta causa. Qui non si parla di togliere tutele ai lavoratori, ma di rendere il mercato del lavoro meno rigido, più flessibile, affidando alle parti sociali, quindi al sindacato, tutto quello che attiene alle regole e alle garanzie anche per quanto riguarda le fasi di crisi aziendale, altrimenti le aziende falliscono o non assumono.

Non c’è il rischio che poi il sindacato blocchi tutto?

Guardi, questa norma non fa altro che precisare, rendere più chiara l’intesa del 28 giugno scorso che valorizzava i cosidetti contratti di prossimità – quelli aziendali e territoriali, appunto. Quell’intesa è stata firmata da tutte le sigle, compresa quella Cgil che ora si arrocca in una posizione molto vetusta. Si mette nero su bianco che questi contratti sono efficaci nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione che vi sia un criterio maggioritario delle sigle sindacali. La norma non dice niente di meno e niente di più. Inoltre, il ruolo del sindacato ne esce rafforzato. Dare forza ai contratti aziendali e territoriali significa responsabilizzare maggiormente il sindacato.

E questo andava messo per forza in manovra?

È stato messo in manovra per favorire l’occupazione e la ripresa produttiva. È una norma per lo sviluppo, con cui si sta cercando di introdurre una riforma strutturale che renda più dinamico il mercato del lavoro. Non ci possono essere garanzie illimitate che imbrigliano l’impresa, perché così non si trova spazio in un mercato del lavoro molto vario e molto variabile, sottoposto a tante influenze e modifiche. Un’impresa imbrigliata è un’impresa che rischia di fallire, un mercato del lavoro bloccato è un mercato in cui un giovane non ha garanzie per il futuro, è destinato a rimanere alla periferia del sistema lavorativo. Non si può pensare di perpetuare ancora il dualismo tra chi è iperprotetto e chi sta ai margini.

Lo Statuto dei lavoratori è superato?

Sì, è datato. Lo Statuto dei lavoratori è nato in un’epoca diversa, oggi non è più in linea con i processi produttivi. È ora di mettere mano a una riforma complessiva che vada verso lo Statuto dei lavori. Va fatta sulla base di grandi principi di garanzie costituzionali e di diritti che sono intoccabili, e prevedendo di lasciare ampie possibilità alle parti di concordare i modelli organizzativi a livello territoriale e aziendale.

Parliamo di un altro passaggio controverso: la possibilità della videosorveglianza…

Non significa spiare i lavoratori. Significa che l’azienda può decidere di misurare la produttività, anche perché spesso non c’è un pieno utilizzo delle ore indicate per l’attività lavorativa. Ma anche questo è sottoposto all’accordo tra le parti, se i sindacati non lo vogliono non si fa. O, magari, si fa dicendo “va bene, tu azienda controlli me lavoratore, per vedere che io faccia pienamente il mio dovere, ma io ottengo la partecipazione agli utili”.

Di partecipazione si parla da tempo, ma finora è rimasta una parola d’ordine…

E, invece, ora gli accordi derogatori la renderanno possibile. Le parti sociali potranno mettere questo argomento sul tavolo della contrattazione e sappiamo che si tratta di un modello che funziona. In Germania funziona talmente bene che quando un’azienda è in crisi il lavoratore magari lavora meno, ma non viene licenziato. Poi, quando l’azienda recupera la capacità produttiva, lui guadagna di più. Spostare le regole dal contratto nazionale al contratto di prossimità in deroga cambia il modello del lavoro, si sblocca la possibilità di occupare da parte dell’azienda, si lega sempre di più il compenso alla produttività. È una rivoluzione e sbaglia chi guarda ai licenziamenti e non capisce che invece si aprono delle grandi opportunità sia per le imprese sia per i lavoratori.

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